Cultura | Letteratura

Jon Fosse, un Nobel silenzioso

La conversione al cattolicesimo, il brutto rapporto coi social, l'abitudine di scrivere all'alba e l'ossessione per la forma: abbiamo parlato con lo scrittore, poeta e autore teatrale premiato con il Nobel per la letteratura.

di Giulio Silvano

Jon Fosse è a Milano per partecipare alla venticinquesima edizione della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi (stasera alle 20, Piccolo Teatro Paolo Grassi), e per ricevere la pergamena della città. Giacca di lino chiara, codino bianco, piccoli occhiali argentati sul naso, l’ultimo premio Nobel per la letteratura è in anticipo per l’intervista nella hall di un albergo a due passi dal Duomo. Nella sua natia Norvegia è famoso già dagli anni ’80, soprattutto come autore teatrale, da quando ha vinto il Nobel lo è in tutto il mondo. La Nave di Teseo ha appena pubblicato il suo ultimo romanzo Un bagliore, oltre ad altri lavori come Settologia, Melancholia, Mattino e sera. Le sue opere sono molto diverse tra loro, eppure tutte simili, a volte caratterizzate da assenza di punteggiatura, da personaggi che si chiamano con lo stesso nome, da un forte realismo psicologico, da fiordi e foreste:

Vedo che ha un iPhone?
È sempre in modalità silenzioso. Normalmente non chiamo nessuno. Non rispondo a nessuno. Se poi è un amico o un familiare richiamo dopo. È il modo più brutale. La concentrazione è molto importante per me. Inizio a scrivere alle 5 di mattina, di solito fino alle 9. Il mondo è silenzioso, e io sono silenzioso. È un buon momento. Non faccio mai pisolini durante il giorno ma vado a letto presto.

Il pomeriggio cosa fa?
Faccio i lavori in casa, la spesa, e poi ho una famiglia. E devo rispondere a tantissime e-mail. Soprattutto dopo il Nobel la quantità di e-mail che ricevo è diventata assurda. Così tanti inviti…

Era più rilassante prima?
Anche prima era già un po’ così. Ma adesso è insostenibile. La mia agente e il mio editore teatrale mi aiutano molto a dire di no, fanno da filtro.

Lei non usa i social, vero? #JonFosse appare 14 mila volte su Instagram.
No, no. Mi farebbe perdere troppo tempo. Quando era appena arrivato mi sono iscritto a Facebook e quella sera stessa venti persone mi hanno scritto dei messaggi, amici che non vedevo da vent’anni, vecchi compagni di scuola, e ho pensato: no non posso rispondere a tutti. Ho cancellato il profilo senza rispondere a nessuno. Questa è la storia del mio successo coi social. [Ride].

Lei ha vinto il Nobel per «le sue opere teatrali e la sua prosa innovativa, che danno voce all’indicibile». Cos’è l’indicibile?
Gli accademici di Svezia stanno indicando qualcosa di molto cruciale nella mia scrittura. Nei miei romanzi ci sono molte ripetizioni. Il punto della letteratura, e dell’arte in generale, è di dire solo quello che si può dire in quel modo. Se lo puoi dire da sociologo o da storico non c’è motivo di farci un romanzo o una poesia. Devi dire quello che non puoi dire in nessun altro modo. Se non fai questo è inutile scrivere un romanzo, o dipingere un quadro. In un linguaggio quotidiano. Se diciamo qualcosa sull’amore, sull’innamorarsi, usiamo parole che non vogliono dire niente. In un romanzo lo puoi descrivere dandogli molto significato in un modo reale. Tutte le esperienze umane, le situazioni esistenziali e i sentimenti puoi descriverli in letteratura in un modo che non puoi fare con altri mezzi. Per me questo ha a che fare con la letteratura stessa. Ma certo puoi scrivere di quello che vuoi, ma l’altra non è il mio tipo di letteratura, o almeno quello che io definisco come letteratura.

Ripetizioni. Ce ne sono molte nei suoi romanzi. Danno quasi un senso ipnotico, un ritmo. È il modo in cui pensa quando scrive?
Non pianifico mai niente prima di iniziare a scrivere. E non voglio avere ambizioni o intenzioni. Se hai delle ambizioni o delle intenzioni si vede poi subito sulla carta. In quei casi quando leggo un romanzo vedo cosa volevano fare, quali erano le intenzioni, il piano, il pensiero che c’era dietro. La letteratura di questo tipo non mi interessa per niente. E non scrivo in quel modo. Semplicemente mi siedo, inizio a scrivere. E all’inizio va bene, se ha una forza in sé, seguo quella forza, e ascolto qualcosa là fuori, ascolto più le mani che non la testa. Lo diceva Samuel Beckett: scrivi con le mani non con il cervello. [Ride] Quando ero un adolescente mi piaceva tantissimo la musica, e suonavo un po’ di chitarra e suonavo in una band. E poi ho smesso di colpo di suonare, e ho anche smesso di ascoltare la musica, e ho iniziato a scrivere. Con la scrittura in qualche modo ricreo la stessa atmosfera, lo stesso mood.

Note, più che lettere.
Esatto. E per questo sono estremamente preoccupato da quella che potresti chiamare la forma. Tutto deve essere perfetto. Ogni virgola deve essere perfetta. Ogni ripetizione. E tutto deve andare bene insieme. Se cambio qualcosa a pagina 5 poi devo cambiare qualcosa anche a pagina 30 o a pagina 50. È un universo molto rigido. E in un certo senso è come una composizione, devi seguire le regole che ti crei.

E le piace scrivere?
Sì. È un viaggio nell’ignoto. Se scrivo bene riporto qualcosa indietro. Qualcosa che non c’era prima nel mondo. E che è nuovo anche per me. E se non è così non mi interessa, diventa noioso scrivere. Se prima pensi troppo, poi scrivere diventa noioso.

Diventa la parte faticosa, invece che quella esaltante?
Esatto. [ride]. Troppo noioso, troppo faticoso. Il mio primo romanzo Rosso, nero è stato pubblicato nel 1983. Sono passati tanti anni. Quest’anno ne compio 65. Sono uno scrittore professionista da tanti anni. E la parte pubblica, ufficiale, i viaggi, le interviste, ho smesso di farli, con molte poche eccezioni. Ma poi ho vinto il Nobel e mi sono sentito di dover viaggiare di nuovo. Ma la cosa più bella di essere uno scrittore è il processo di scrittura. La magia del processo della scrittura.

E dal 1983 non si è persa questa magia?
No. È uguale a prima. Ho scritto i primi racconti e le prime poesie a 12 anni. Avevo trovato un posto sicuro dentro di me da cui scrivevo. E cinquant’anni dopo scrivo ancora dallo stesso posto. Anche se è cambiata, la mia scrittura. Se rileggo le prime cose che ho scritto sono pessime.

La pratica quindi è importante?
Sì, più scrivi meglio è.

La neve, i fiordi, le foreste. C’è molta natura nei suoi romanzi.
Sono cresciuto sul mare, ed ero in barca fin da bambino. Il mare è anche un posto pericoloso, ti puoi perdere nella nebbia e le barche non ti vedono e possono venirti addosso. Il mare, il bosco hanno delle somiglianze per me. Ti puoi perdere.

Usa molto il nome Asle per i suoi personaggi. In Settologia ad esempio il pittore si chiama Asle, ma anche sua moglie, e anche l’amico.
Uso quel nome tantissimo. Nella mia scrittura preferisco non usare nomi. O usare nomi semplici e riusarli all’infinito. Lo faccio per ridurre l’impatto di un nome. Se dai il nome a qualcosa lo definisci, gli dai un certo potere che riduce il tutto. Nelle mie opere teatrali scrivo “il padre, la madre…”. Anche in Un bagliore l’uomo non ha nome. Ma anche nel primo romanzo che ho scritto a 20 anni. È una sorta di idiosincrasia che ho fin dall’inizio.

L’assenza di nomi, ma a volte anche di espliciti riferimenti temporali.
Se alcune storie possono essere localizzate nel tempo, come Un bagliore, comunque parliamo di un tempo che precede gli smartphone e i Mac.

Scrive diversamente da quando ha vinto il Nobel?
Il Nobel è stato estremo, per via di tutte queste richieste. Molte sono amichevoli. Ma non ho nemmeno provato a scrivere niente di nuovo in questo periodo. Non era nemmeno il mio piano, per fortuna. Perché comunque mi prendo delle pause tra un romanzo e l’altro. Però mi piace molto tradurre, sto lavorando alla traduzione di un romanzo di uno scrittore australiano che mi piace molto, Gerald Murnane, in norvegese. E ho provato a tradurre varie opere per il teatro. E poi traduco poesie, ho lavorato a Sebastiano in sogno di Georg Trakl [dal tedesco, ndr]. E poi Rainer Maria Rilke, che ho tradotto negli ultimi anni.

Niente libri in vista?
Per fortuna prima del Nobel avevo finito due opere teatrali. Una si chiama Qualcuno e l’altra si chiama The Play, semplicemente. E come se non fosse abbastanza avevo buttato giù tre novelle a cui lavorerò quest’estate se riesco a concentrarmi. Sono collegate, ambientate nello stesso posto. Quando inizio a scrivere qualcosa non so mai quando o come finirà. Quando finisce finisce.

In Melancholia e in Settologia, i suoi romanzi più corposi, i protagonisti sono pittori. Come mai?
Ho bisogno di un protagonista che spesso voglio sia un artista, per dire quello che voglio dire in quell’opera. Ma usare uno scrittore sarebbe troppo vicino a me. Sarebbe impossibile, sarebbe come scrivere un libro su di me, e non l’ho mai fatto. Voglio sempre cambiare le cose. Ma tra un pittore e uno scrittore non ci sono tantissime differenze, quindi uso i pittori. Poi sono interessato alla pittura.

Parliamo di autofiction?
Non ho niente contro l’autofiction. È una pratica onorevole. [Ride] Cerco di essere onesto, eh. Ma quando scrivi autofiction c’è sempre qualcuno che non è te, che sta scrivendo di te. C’è una distanza. Nell’autofiction tu diventi un oggetto. E qualcuno sta scrivendo di te. Il concetto è che l’autofiction è fiction, perché in sé la vera autofiction è impossibile. Non mi ha mai attratto. A provare a usare le proprie esperienze, usarle direttamente senza cambiare niente, viene fuori della pessima scrittura. Ho bisogno di cambiare le esperienze per renderle letteratura. Dare una forma, un ritmo. È una trasformazione. Quando scrivo devo essere consistente e seguire il ritmo.

Torniamo sempre al ritmo.
Sì. Quando leggo i poeti, anche lì è il ritmo che è importante, che è un segreto, è nascosto. Anche nel grande teatro è così. È difficilissimo definirlo. Potremmo farlo tutti, ma solo quando c’è davvero lo senti. Ho studiato letteratura comparata per anni e sento che la teoria della letteratura, che la scienza della letteratura, non riescono ad afferrare questa cosa.

E la semiotica?
Era molto popolare quando studiavo all’università. Lo strutturalismo e il post strutturalismo. Ma per me non funzionano, in quel senso. Non spiegano veramente il fulcro. Trovo quasi scortese quando qualcuno riduce i miei libri a categorie psicoanalitiche o a categorie marxiste. Dico: Va bene, va bene. Ma non ha niente a che vedere con quello che ho scritto.

È in uscita in Italia una sua raccolta di poesia, Ascolterò gli angeli arrivare. Quando scrive poesia, c’è più autofiction?
Stranamente, sì. [ride]. Non direi proprio che scrivo poesia, scrivo delle poesie ogni tanto e poi quando ne ho abbastanza le metto insieme. Ogni poesia deve avere un ritmo, è più una sorta di movimento, nello spazio.

C’è un elemento quasi antiscientifico, mistico, in questi punti di vista.
La vita… ogni cosa è così strana. Due genitori hanno fatto qualcosa, ed eccoci qui [ride]. E siamo qui per un periodo piuttosto breve. E se non inizi a chiederti cosa sia tutto questo, e quale sia il punto di tutto questo è come non pensare. È molto basilare. Puoi chiedere a un matematico, a un sociologo, a uno psicologo, puoi andare verso la filosofia, oppure puoi andare verso la letteratura se senti il bisogno di scoprire qualcosa su questo mistero della vita.

La letteratura dà più risposte?
Sì, ma le risposte date dalla letteratura non sono mai vere, e non aspirano mai a essere reali. Inteso nel senso scientifico. Per me la letteratura non riguarda la realtà, o i fatti, ma riguarda la verità. Quando scrivo provo delle cose nuove, che non conoscevo prima, e, ovviamente è una metafora, ma è come un dono. Se scrivo qualcosa di buono è una cosa più grande di me, più saggia di me, più grande della vita stessa. Riesco a farlo, ma non ha niente a che vedere con me come persona. C’è qualcosa di strano dentro di me, ma non sono io. C’è la differenza tra me e lo scrittore che è in me, ma anche con la persona, o le persone, create dai media. Ero già abbastanza famoso dal primo libro in Norvegia, da tanti anni sono una persona di cui esiste un’immagine pubblica ufficiale che cambia negli anni, ma è una terza persona che non esiste in realtà. Ma quasi niente nei media esiste, in un certo modo. [ride]

Non le interessa quindi la sua persona pubblica?
No, per niente. Non voglio mai leggere delle interviste, soprattutto quelle “vere”. Sono tutte false. [ride]. Avendo lavorato io stesso come giornalista cerco di fare le cose nel modo più corretto possibile, ma ci sono migliaia di errori in quello che ho detto ai giornali negli anni. Mi sono stancato di me, in un certo senso, e non volevo più leggere la verità. Ora non leggo le interviste, nemmeno quelle in norvegese, e non voglio che me le mandino.

Non legge nemmeno le recensioni?
Mai. Ecco, non sto dicendo proprio la verità. Ogni tanto ci do un’occhiata. Capita che le legga. Ma in realtà non le leggo veramente. E, questo per davvero, non ho mai letto un libro, una tesi di laurea, o articoli accademici scritti su di me e sul mio lavoro.

Qualche tempo fa si è convertito al cattolicesimo.
Quando ho visto il Duomo poco fa, ne ho sentito una grande distanza. Rispetto al contesto religioso che conosco in Norvegia. Per anni ho avuto una vera fascinazione per i quaccheri, niente preti, niente sacramenti, niente di niente. Il più semplice possibile. Giusto qualche sedia, seduti in cerchio, concentrandosi sulla luce interna che ci ha dato Dio. È stato il mio luogo spirituale da credente, e ancora lo è. Non bevono alcol, sono pacifisti. E io non ho alcun rispetto per le autorità, non mi sono mai tolto il cappello incontrando un prete. [ride]. Ma un incontro al mese dai quaccheri non era sufficiente, avevo bisogno di qualcosa di più, e sono finito nel cattolicesimo. Soprattutto perché mi piace molto la messa. E preferisco la messa in latino. E queste liturgie, queste ripetizioni… E ripetendo ti fermi davvero a pensare a quello che dici, ma si crea anche un silenzio a forza di ripetere. È molto strano per un norvegese essere cattolico, perché siamo pochissimi, forse duemila. Quasi tutti convertiti. La maggior parte sono intellettuali.

Cosa legge?
Ho passato molto tempo a leggere Omero, e poi Eschilo e Sofocle per fare degli spettacoli teatrali, non aggiungendo niente ma cercando il centro della tragedia, togliendo solo delle cose ma senza aggiungere. In generale non leggo molta letteratura contemporanea. Rileggo continuamente quello che leggevo all’università. Ad esempio Dante. Ho passato molto tempo a cercare di capire La Divina Commedia. Un peccato non possa leggerla in Italiano.

Ibsen è stato importante per lei?
No. Da scrittore no. Ma ha spianato la strada per gli scrittori norvegesi. In molti hanno imparato a leggere il norvegese per via di Ibsen.

A lei non era piaciuto il Nobel a Dylan.
No. E nemmeno a Dario Fo. Aveva una funzione in Italia, da attore. Ma non era uno scrittore. E rispetto a Dylan, mi spiace perché c’era un poeta americano che ho tradotto con la mia ex moglie, John Ashberry, che era un ovvio candidato da molti anni per il Nobel e poi hanno deciso di darlo a “un poeta americano”, e l’hanno dato a Dylan. Qualche mese dopo Ashberry è morto. Sarebbe dovuto essere lui a vincere. Una storia molto triste. Doveva anche venire in Norvegia ma eravamo troppo timidi e non l’abbiamo incontrato. [ride]. Però voglio dire che anche Dylan è bravissimo, ma non ha niente a che vedere con questo, con la letteratura. È un altro lavoro. Ma l’accademia svedese cerca di fare del suo meglio. Hanno molte persone che leggono in varie lingue, ma a volte prendono delle decisioni strane.

E Philip Roth, c’entra anche la storia del #MeToo?
Penso che fosse un candidato, ma aveva molte chance di vincere anche prima del #MeToo. A me non piace, e forse nemmeno all’Accademia Svedese. Non mi interessano molto i romanzi americani. Con l’eccezione di William Faulkner. È anni che non lo leggo, ma ho passato molto tempo in passato a cercare di capire L’urlo e il furore.

E chi potrebbe vincere nei prossimi anni?
Ci sono molti bravissimi scrittori nel mondo e sono certo che solo una manciata sono conosciuti fuori dal loro paese. Probabilmente lo vincerà uno sconosciuto, qualcuno che né io né te abbiamo mai sentito nominare.