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C’è ancora spazio per una nuova lingua nel romanzo italiano

Pochi giorni fa Sellerio ha pubblicato Storia di mia vita, debutto letterario del sessantaduenne Janek Gorczyca. È un libro sbalorditivo per due motivi: la biografia dell’autore, e lo stile con cui è stato scritto.

Gorczyca vive da più di trent’anni a Roma, senza casa e senza un posto fisso di lavoro. È un omone forte come un cavallo, generoso, allergico alle regole e con una smodata propensione per le bevande alcoliche. Nato in Polonia nel 1962, si è sciroppato tutto il periodo della tarda dominazione sovietica, iniziando presto a lavorare nelle centrali elettriche in Polonia e nelle centrali nucleari in Russia, e imbarcandosi poi in una serie di commerci illegali che lo renderanno benestante. Durante il servizio militare sopravvive a missioni scriteriate. Sposa una donna russa, litiga, divorzia. Tesissimi anche i rapporti con la famiglia. Dopo il capodanno del 1992, Gorczyca prende soltanto una borsa e dice addio per sempre. Va a Danzica, poi a Amburgo, sta per andarsene in Finlandia ma qualcuno lo convince che è meglio l’Italia, e così Gorczyca finisce quasi per caso a Roma.

Lì inizia Storia di mia vita, resoconto di come non se ne sia più andato da bordo Tevere. Ecco l’incipit: «Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile». Segue la storia in centoquaranta pagine, scritte in prima persona con una prosa da autentico autodidatta, originale e sincerissimo, di tutti gli anni vissuti da Janek e dal suo amore Marta, polacca come lui, tirando a campare e dormendo dove capita, uno stile di vita che porta a apprezzare le birre e le sigarette più delle docce e dei pasti regolari.

Janek a Roma è un fabbro, di giorno lavora nell’officina di Gino, di notte dorme per strada su un materasso di cartone. Pochi mesi dopo lo sfratto dalla stanza a Campo dei fiori, nel gennaio 1999, Gino«“mi indica la Torre, ossia Villa Farinacci, che era residenza del capo di fascisti di Roma, adesso è monumento, e mi dice di occupare dicendo che così siamo più coperti e non diamo tanto nell’occhio». Gorczyca si porta Marta, si sono conosciuti da poco e sta nascendo il loro affetto, anzi come dice lui «decido di vivere sta avventura che poi è diventata storia vera». Vanno a dare un’occhiata a Villa Farinacci, ex centro sociale sgomberato: «Quando facciamo sopralluogo, vediamo un cancello, ma facendo io il fabbro per me non era un problema. Cambio la serratura, facciamo la pulizia, ci andiamo a dormire lì. Dal primo giorno rinuncio di nascondermi. A distanza di anni mi domando che cosa mi ha spinto di fare questa scelta difficile. Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso di responsabilità? Più probabile voglia di vita un po’ sbandata».

L’occupazione di Villa Farinacci attira presto tutto un popolo di reietti. Senzatetto est europei e coppie di giovani fattoni romani benestanti in cerca di avventure si trasferiscono nella Torre. Gorczyca accoglie tutti, mantiene l’ordine, compra le bombole di gas per cucinare, fa amicizia con il vicinato grazie anche alle visite all’area cani del parco limitrofo, organizza bicchierate di quartiere e si sbronza insieme al prete di zona, è portavoce con polizia e servizi sociali dei suoi compagni di occupazione. Diventa una piccola celebrità nel circondario, evita i tentativi di sfratto, viene portato spesso in questura. A una certa, dai e dai, le autorità li sbattono fuori. Janek e Marta inaugurano una spossante routine fatta di occupazioni, sgomberi, notti all’addiaccio e brevi periodi – specialmente d’agosto – ospiti in casa di qualche anima nobile partita per le vacanze. Gorczyca, con signorilità e memoria di ferro, racconta come è sopravvissuto a questa vita.

Per dire il tipo: dopo tre mesi rinchiuso in carcere, se ne torna dalla sua Marta con soltanto trenta euro in tasca. Le prime cose che compra sono birra e sigarette, e poi: «Faccio una cosa compro un pollo arrosto perché voglio che cagnolino capisce che non è stato abbandonato, riprendo il mio telefono, chiamo Gino e gli dico che sono di nuovo libero, lui è contento ha lavori arretrati mi dice di trovarmi al bar alle nove la sera, chiamo amico Carlo dove Marta è stata ospitata chiedo se posso venire a dormire anche io, risposta è: Marta può venire tu no, lascio a lei la scelta. Alle nove viene Gino, mi porta altri 20 euro offre la cena e semplice dice Domani vieni a lavorare. Dopo Marta decide di rimanere con me, mi sgancio dalla compagnia chiamo Giuliana le chiedo una coperta, lei me la dà, prendo un po’ di cartoni e così comincia il nostro temporaneo dormitorio nel parco ma da soli».

Storia di mia vita non sarebbe stato pubblicato senza la mediazione di Christian Raimo, scrittore, professore e agitatore culturale romano. Raimo conosce Gorczyca da più di vent’anni, l’ha aiutato in mille occasioni, offrendogli passaggi in macchina nel cuore della notte e ospitandolo a casa sua durante il lockdown per la pandemia di Covid-19. È stato Raimo a presentarsi un giorno nella redazione di Sellerio con i quaderni scritti a mano che poi sono diventati, dopo un lavoro quasi inesistente di editing, Storia di mia vita. Come si sarà capito dalle citazioni dei paragrafi precedenti, sarebbe stato difficile apportare correzioni all’opera senza snaturarla. Gli editor di Sellerio si sono limitati a battere al computer il testo, con aggiustamenti minimi. Gorczyca scrive in un linguaggio inventato da lui, dove la parlata ibrida di un immigrato polacco che ha imparato l’italiano per strada si è contaminata con il dialetto romano. Il risultato è sbalorditivo, e si legge senza fatica. D’altronde viviamo tempi grami per la lingua italiana, siamo circondati da libri deludenti scritti da influattivisti e seguitissime pagine di informazione su Instagram che si esprimono attraverso i meme, e una percentuale consistente dei messaggini che riceviamo ogni giorno sono sprovvisti di accenti e articoli. In questo panorama, il gergo di Gorczyca si distingue per la sua dignità letteraria e il suo potere evocativo.

Come in tutte le autobiografie dolenti ben riuscite, il narratore di Storia di mia vita evita di piangersi addosso. Si ha l’impressione, leggendolo, di star seduti di notte con Janek su due sedie di plastica bianca lasciate per strada da un bar chiuso, e di ascoltarlo mentre ti racconta le sue memorie dividendo una bottiglia di vodka calda presa al supermercato. È una vitaccia per tutti, dolorosa e senza senso, ma per qualcuno un po’ di più. Dopo aver finito il libro si capisce benissimo come Gorczyca sia riuscito, pur scegliendo di vivere in contromano, orgogliosamente anarchico, a farsi voler bene da così tante persone.

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