Cultura | Cinema
Io sono ancora qui ci ricorda che contro la dittature non bastano le buone intenzioni
Candidato a tre premi Oscar, il film di Walter Salles è una storia di sopravvivenza al fascismo al quale manca però un pezzo: la resistenza.
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Alla fine di Io sono ancora qui viene da pensare a come sia vivere sotto una dittatura di estrema destra. Il film racconta della distruzione di una famiglia borghese a Rio da parte della dittatura fascista brasiliana all’inizio degli anni ’70. L’ex deputato laburista Rubens Paiva (Selton Mello), tornato dall’esilio e divenuto ingegnere, un giorno viene prelevato dalla polizia e poi non torna più. La moglie Eunice Facciolla (Fernanda Torres, candidata all’Oscar per la Miglior attrice protagonista, la seconda brasiliana a ricevere una nomination dopo sua madre, Fernanda Montenegro) e una delle figlie, Eliana (Luiza Kosovski), vengono a loro volta prese, interrogate e incarcerate. L’allegra quiete borghese viene irrimediabilmente spezzata. Eunice sarà costretta a trasformare la propria vita e a scoprire la violenza della dittatura, durata dal 1964 al 1985. I traumi l’accompagneranno per sempre. Si iscriverà a Legge e diverrà un’avvocata per i diritti umani. Il figlio e le figlie conviveranno con l’assenza del padre e inizieranno una nuova vita.
Il film di Walter Salles – autore de I diari della motocicletta e del tenero Central do Brasil – è basato sul romanzo autobiografico del figlio del deputato, Marcelo Rubens Paiva, Ainda Estou Aqui (tradotto da La Nuova Frontiera). Efficace nel ritratto di un periodo storico, per quanto potentemente filtrato dalla dimensione di classe, il film è tanto forte emotivamente quanto scolastico e didattico. Senza increspature, Salles ci guida nelle trasformazioni della famiglia Paiva davanti alla tragedia di un rapimento che poi diventa omicidio. Nel silenzio generale e nell’impossibilità di lottare. Impossibilità che deriva anche da dinamiche patriarcali introiettate dagli oppositori politici, abbastanza consapevoli dell’orrore di una dittatura ma partecipi del maschilismo, per quanto mosso da “buone intenzioni” protettive.
Come accennato la dimensione di classe – ma anche razziale – in questa storia è piuttosto importante. Non sappiamo se sia stata la presenza di altri film come il noto, solido Garage Olimpo di Marco Bechis – sulla dittatura argentina – quelli di Patricio Guzmán o Post Mortem di Larraín sul Cile, L’amerikano di Costa Gavras sulle ingerenze yankee in Uruguay, a portare Salles a concentrarsi sul caso Paiva. O se abbia prevalso la conoscenza diretta di Salles di una delle figlie di Paiva, Lalù, o, ancora, se si volesse dare il senso di cosa può fare un regime fascista alla sua élite culturale. O se tutto sia fatto con l’intento di popolarizzazione di una fase oscura della storia brasiliana – intento accolto per altro da ottimi incassi nelle sale e da recensioni molto positive della critica sin dalla prima alla Mostra del cinema di Venezia. Certo il piano del film è quello personale, affettivo, dei silenzi e dei legami sfaldati e tuttavia rammendati. Ed è un livello dove Salles, per quanto in modo asciutto, arriva al pubblico, aiutato – e talvolta intralciato – dalle musiche di Warren Ellis e dello splendido tropicalismo di Gil e Veloso.
La politica arriva alla fine, con le Commissioni sulla verità e la giustizia del 1996 e del 2014. Nel film non si immaginano gli ostacoli che Bolsonaro (al governo tra 2019 e 2023) ha posto agli sforzi per ricostruire l’accaduto e per incriminare i responsabili. I titoli di coda ci dicono che i poliziotti responsabili dell’omicidio sono stati assolti. E sappiamo che Eunice diventa una delle “poche” esperte di diritti degli indigeni e una consulente del governo brasiliano, delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale.
Salles è un regista progressista e viene da un’importante famiglia brasiliana. È figlio di Walter Moreira Salles, un ministro di centrosinistra tra il 1961 e il 1962 e banchiere, e fratello di João, che guida l’Instituto Moreira Salles, dotato di splendide sedi a Rio e Sao Paulo. João dirige anche una rivista culturale, Piauí, che, contro il rischio di un golpe in stile Capitol Hill – poi avvenuto a Brasilia l’8 gennaio 2023 – nella primavera del 2022, prima delle elezioni, pubblicò un appello firmato da vari artisti e intellettuali in difesa della democrazia.
Walter Salles produsse inoltre il celebre City of God di Fernando Meirelles. Stilisticamente distante dalla creatività rivoluzionaria del Cinema Novo di Glauber Rocha, Salles è tra i più noti registi brasiliani contemporanei, forse assieme a José Padilla, il regista del violentissimo e ambiguo Tropa de Elite, sulle unità speciali della polizia (Bope). Ambientato a Rio, Tropa de Elite racconta di un poliziotto fascista e di uno studente poliziotto ben intenzionato e che studia Foucault e che finisce per sostituire il fascista. Il contesto è quello degli squadroni della morte del BOPE che a Rio torturano i sospetti e uccidono i disarmati. Sostanzialmente dei fascisti, emergono come comunque meno peggio della polizia ordinaria, corrotta e senza valori. Ma c’è una solidarietà maggiore di quel che emerge dal film tra polizia e gang, come mostra l’omicidio di Marielle Franco che proprio questa terra di mezzo tra bande, politica e polizia indagava. Padilla, formatosi a Oxford e già autore del documentario impegnato Ônibus 174, mostrava come, davanti alla violenza delle gang e alla corruzione, non si possa essere naive, pacifisti. Tuttavia sarebbe meglio anche non essere fascisti.
Tropa de Elite pur con tutti i limiti – ad esempio del finale enfatico – interrogava. Io sono ancora qui di Salles invece no. E non accenna minimamente al fallimento della democrazia razziale brasiliana, fallimento che precede e sopravvive alla dittatura – posti gli importanti miglioramenti sotto i governi Lula. Salles può rimandare alle preoccupazioni del pubblico, anche internazionale, anche italiano, perché viviamo in un Paese che ha un vice Presidente del Consiglio che ammira Bolsonaro e perché, complessivamente, facciamo parte dell’internazionale nera che, tra le varie cose, ha molti rapporti con gli eredi delle dittature sudamericane.
La morte e la fanciulla di Roman Polański, su sceneggiatura dello scrittore e collaboratore di Allende Ariel Dorfman, al contrario di Io sono ancora qui, terrorizzava. Se fossimo delle vittime della dittatura di Pinochet (Sigourney Weaver) e questa fosse terminata e avessimo avuto davanti il nostro carnefice (Ben Kingsley), pur essendo nostro marito (Stuart Wilson) impegnato in prima linea nel processo di riconciliazione, siamo sicuri che non lo avremmo punito per le violenze inflitte? Dorfman e Polanski facevano domande radicali sul limite della vendetta e sul suo confine con la giustizia. Queste domande sono inevase in Io sono ancora qui, dove la dittatura è una fase della storia brasiliana (con centinaia di desaparecidos e 20 mila persone torturate), senza premesse e senza conseguenze, se non per i membri diretti delle famiglie delle vittime.
Ma il processo di riparazione, le radici e le propaggini, la possibilità di una ripetizione sotto forma diversa – con Bolsonaro e il suo movimento – sono fuori dal campo. Sotto il governo di Bolsonaro sono stati uccisi moltissimi oppositori politici e cittadini: con il pretesto del contrasto al traffico di droga sono stati ammazzati impunemente poveri e neri che vivevano nelle favelas (ad esempio a Jacarezinho, a Rio, il 6 maggio 2021, dove sono morte 27 persone); e, come detto, c’è stato un tentato colpo di Stato.
Il caso di Paiva è drammatico ma non sembra che nel film ci sia possibilità di farne qualcosa, se non registrare l’accaduto. Vediamo la forza di resistere di una donna con la sua famiglia, perfino la trasformazione del dolore in impegno pubblico. Ma questo succede solo al termine del film. Non è il centro, è la fine. Il centro sono la descrizione della normalità borghese, la bolla privilegiata di Rio che vive come se non ci fosse la dittatura, tra la spiaggia di Copacabana e un disco di Serge Gainsbourg, tra un felice pranzo con gli amici intellettuali e un film di Godard, fino a che il governo militare arriva a colpire anche i membri di questa élite. Con le difficoltà che ne conseguono in termini di gestione dell’assenza e di mantenimento della famiglia, con gli affetti intorno che si dividono tra chi si mobilita fino a un certo punto e chi scompare e gira le spalle per opportunismo. Ma anche questo è solo accennato.
Io sono ancora qui è anche un film sulla memoria ma non è il film sulla memoria che ci serve: quella che ci aiuta a comprendere quello che è successo e quello che può succedere – e in parte è già davanti ai nostri occhi. Rischia di essere un film consolatorio, pieno di buone intenzioni ma sostanzialmente superficiale. In fondo la forza della famiglia Paiva è la forza di una famiglia che resiste a un lutto ma se il lutto non fosse stato politico la reazione emotiva sarebbe potuta esser la stessa. Insomma, Salles prega ai convertiti: chi è antifascista rimane tale, chi non lo è pure, la zona grigia in mezzo soffre con la famiglia Paiva ma non è spinta a farsi più domande. Salles non affonda la lama e forse con sempre più fascisti in giro sarebbe stato utile.