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Intervista a Gianluigi Ricuperati

16 Aprile 2011

Gianluigi Ricuperati ha una bella faccia, rotonda e cordiale. Una faccia più giovane dei suoi 33 anni. Ha modi amichevoli e una maniera estremamente chiara di esporre le proprie idee. Da diverso tempo partecipa con i suoi interventi alle pagine culturali de Il Sole 24 Ore e a quelle di Abitare. In passato ha anche collaborato con Domus e si è occupato di scrittura in diversi formati – dal reportage alla saggistica. Da qualche settimana si trova in libreria il suo primo romanzo: Il mio impero è nell’aria (minimum fax, 305 p.), che ha in Vic Gamalero – giovane nevrotico, geniale e ossessionato dal denaro – uno dei protagonisti più interessanti della letteratura italiana degli ultimi anni. Un romanzo in realtà “concepito” da lungo tempo, visto che «la firma del contratto per il libro è del dicembre 2006» – inizia a spiegarmi Ricuperati. «Un lasso di tempo che una volta era normale ma che per quella che è l’odierna realtà editoriale è invece insolitamente lungo».

Come mai così tanto tempo?

Credo che per quanto riguarda lo scrivere il proprio primo romanzo valga ciò che si dice dei musicisti: «hai tutta la vita per pensare al primo disco». In realtà è stato davvero molto complesso. Perché quel che ho imparato dell’arte del romanzo, l’ho imparato sul campo – direttamente scrivendo questo libro. Scrivendolo e riscrivendolo. Tre volte e mezza, quasi quattro.

Come si è svolto il processo di editing?

Più che di editing direi che si è trattato di coaching. Un continuo stimolarmi- quasi una pressione benevola – da parte delle persone che hanno letto le varie versioni della storia in questi anni. Una pressione a migliorarmi; a migliorare la singola frase; a tirare fuori continuamente il meglio. L’editing vero e proprio – l’usuale revisione del testo – che è venuto dopo, è stato un processo relativamente poco significativo rispetto a questa attività di “coaching” da parte soprattutto di Nicola La Gioia e anche di Christian Raimo. Che mi hanno aiutato a concentrarmi solo sul testo, a realizzare il miglior testo possibile – senza considerare le circostanze che avevo intorno. A spingere il libro là dove tutti noi sapevamo poteva arrivare.

Mi sembra che all’inizio del libro e anche più in là ci siano una serie di citazioni abbastanza puntualmente Kafkiane. In particolare mi ha ricordato La Metamorfosi e La Tana. È un “gioco” voluto o è solo un’influenza più generica che mi ha dato quest’impressione?

Sicuramente non è un gioco voluto. È chiaro che trattandosi di un autore gigantesco come Kafka è piuttosto comune trovare delle sue tracce in altri libri. Per quanto riguarda i giochi di “citazioni”, più o meno espliciti: ce ne sono alcuni, soprattutto di testi musicali. Ma è qualcosa che si ferma al livello appunto di gioco con il lettore.  Se Vic ha qualcosa di kafkiano è probabilmente il suo sviluppo – che inizia in una fase quasi placentale – e il suo rapporto con lo spazio e con le architetture. Quello che ho cercato di fare, nel descrivere il complesso e ambiguo rapporto di Vic con la realtà, è di legare sempre gli elementi emotivi che lo caratterizzando a degli ambienti: il bagno all’inizio, la piattaforma petrolifera a un certo punto, la clinica in seguito.

Il titolo del libro è molto bello. Lo hai scelto tu?

Sì, fin da subito. Ancora prima di iniziare a scrivere, avevo in testa questo titolo. Praticamente è dal 2002 che esiste. Tanto è vero che c’era Giuseppe Genna che ne era innamorato da tempo e mi diceva «se non fai uscire un libro tu. Lo uso io». In realtà è un settenario, e quindi ha un che di poetico – è come un verso. C’è poi anche una famosa frase del pittore Osvaldo Licini che diceva ‘Il mio regno è nell’aria’,  che è a sua volta una citazione di Marsilio Ficino. In realtà la mia ossessione per questa frase nasce dal fatto che, a un certo punto della mia vita, ero convinto di aver letto da qualche parte che era la frase pronunciata da Beethoven sul letto di morte. Ma in realtà non ho mai trovato conferma di questo fatto in nessuna delle sue biografie che ho letto in seguito. In nessuna testimonianza. Forse me lo sono sognato. (Risate). Ma probabilmente la cosa più affascinante del titolo – quella che preferisco – è che funziona un po’ come uno slogan per l’epoca che stiamo vivendo, sempre più caratterizzata dalla smaterializzazione.

C’è in qualche modo – nel descrivere la mancanza di contatto con il reale di Vic, il suo rapporto “morboso” con i soldi, il suo trasformismo costante – anche l’intento di costruire una metafora con la situazione attuale del paese, in cui proprio il contatto con il reale sembra ciò che sempre più sta venendo meno?

Non c’è stato un momento in  cui ho pensato a tavolino se era una metafora. Se stavo, o volevo costruire una metafora. Ma ora, vedendo le reazioni, mi rendo conto che il romanzo è trainato dalla forza del personaggio. E il personaggio è anti-italiano e arci-italiano allo stesso tempo: cattolico e anticattolico, borghese ma anche una specie di emarginato. Ritengo che il rapporto, del tutto patologico, di Vic con il denaro che nel libro è fondamentale, sia un elemento che è centrale nelle culture mediterranee, italiane e spagnole. Inoltre credo che nella sua continua capacità – assolutamente geniale – di reinventarsi, trasformarsi, adattarsi alla realtà e al contempo plasmarla Vic rappresenti bene, quasi introietti dentro sé, la genetica del periodo berlusconiano. Perché una delle qualità quasi mefistofeliche di Berlusconi che da sempre, dall’inizio della sua carriera politica, fa più presa sulla pancia del paese è proprio questa continua capacità di adattarsi e di reinterpretarsi che è peculiare del nostro premier.

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