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Il valore simbolico dei taxi

Sull'importanza di scegliersi gli emblemi più efficaci per dare forza al disegno liberale e riformista

13 Gennaio 2012

A proposito di taxi e delle polemiche di queste ore, pubblichiamo un estratto dall’editoriale che Marco Ferrante ha scritto per Studio. La versione integrale, completa della sua parte sull’Articolo 18, la trovate sul nuovo numero in edicola.

Ci vorrebbe un’attività permanente di studi su politica e simboli di facile consultazione per chi fa politica o si trova nella condizione di dover prendere decisioni nell’interesse di tutti. Le scelte politiche, soprattutto quelle dolorose, hanno bisogno di una segnaletica chiara e semplice per convogliare il consenso quanto più generale possibile. […]

I taxi. Identificare la battaglia per le liberalizzazioni nello scontro con la corporazione dei taxisti è già successo altre volte negli ultimi anni, con scarso successo. Ci sono almeno due ragioni per cui quel bersaglio non è abbastanza convincente per l’opinione pubblica. La prima questione è puramente quantitativa: riguarda veramente solo tre città, Roma, Milano e Napoli, dove peraltro il servizio è complessivamente molto migliorato negli anni soprattutto a causa di un mutamento generazionale: i tassisti di trenta-quarant’anni sono molto più disponibili alle novità rispetto a quelli di sessanta (quindi è semmai la politica a dovere proporre soluzioni convincenti ai tassisti: Franco Romani, uno dei padri dell’antitrust italiana, proponeva di regalare a ogni tassista una licenza;  sarebbe stato poi il tassista a decidere se venderla o utilizzarla per avviare una piccola impresa). La seconda questione riguarda le dimensioni economiche del fenomeno: è chiaro – anche intuitivamente – che le liberalizzazioni delle licenze dei taxi non possono essere un grande volano di crescita economica, e che le liberalizzazioni creano crescita e posti di lavoro a partire da settori più larghi del consumo: basti pensare alle tlc, la televisione per esempio, o la telefonia mobile.

Tutta la dialettica sulle licenze dei taxi utilizzati come bandiera, ha portato a una schematica attribuzione delle parti politiche sempre più simile a un cliché: c’è chi difende i tassisti in nome di uno spirito – diciamo così – post-democristiano di individuazione di categorie da tutelare (è quello che fa Gianni Alemanno a Roma) e chi invece se ne serve per difendere quel tipo di posizione un po’ terzaviista che aveva scelto come motto “il liberismo è di sinistra” (titolo di un fortunato pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi).

Oggi il confronto sulle liberalizzazioni dovrebbe svolgersi su un terreno più roccioso, più largo e più determinante per la nostra economia: i servizi pubblici locali per esempio, o la scuola, e lì individuare dei simboli più efficaci e realistici su cui spingere l’opinione pubblica a prendere posizione. […]

Nella comunicazione politica bisognerà tenere conto della necessità di maneggiare emblemi, individuarli, sceglierseli e su quegli emblemi costruire un nuovo slancio di riformismo possibile e generare il consenso che serve. Le riforme non si fanno senza avere dietro una società che le condivida. E, anche forti del consenso della maggioranza dell’opinione pubblica, per fare le riforme nella battaglia c’è bisogno di molta energia (il caso più raccontato è quello della signora Thatcher, l’autobiografia della quale resta una lettura molto consigliata a chi scende nell’agone) e della lucida capacità di pianificare lo scontro sulla base delle forze in campo e delle munizioni disponibili.

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