Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a settembre in redazione.

Graham Greene – L’americano tranquillo (Sellerio)
Traduzione di Alessandro Carrera
Anche se non esiste, non mi pare almeno, una categoria per definirli, nella mia testa esiste tutto un filone di romanzi con caratteristiche ricorrenti che comprende molti dei miei libri preferiti. Sono storie che hanno un’ambientazione esotica, un protagonista (ed eventualmente altri personaggi) che potrebbe essere definito un expat (o a volte un semplice turista), un intreccio che ha qualcosa del noir o qualcosa della spy-story anche se non si tratta di romanzi strettamente di genere. Faccio rientrare in questa categoria, per esempio, Democracy di Joan Didion, o I nomi di Don DeLillo, Mostri che ridono di Denis Johnson e Turista da banane di Simenon, ma anche Notturno indiano di Tabucchi. Il capostipite potrebbe essere individuato in Cuore di tenebra di Conrad, mentre lo scrittore più recente con una produzione quasi esclusivamente concentrata su questi temi è Lawrence Osborne. Osborne, bravissimo e da me amatissimo, è però uno scrittore derivativo. Nel senso che non sarebbe potuto esistere Osborne se non fosse esistito Graham Greene. Dello scrittore inglese, di cui Sellerio per il nostro (e mio in particolare) piacere sta ripubblicando tutta l’opera, è stato appena ripubblicato L’americano tranquillo, uno straordinario classico del romanzo esotico. Siamo nel Vietnam degli anni ’50, ai tempi della Prima guerra indocinese, con la Francia contro i Viet Minh, e l’America che inizia a mettere un piede in quello che diventerà uno dei suoi più grandi disastri geopolitici. In questo quadro caotico si muove Thomas Fowler, giornalista inglese, che incarna l’identikit perfetto, un archetipo quasi, del protagonista di questo tipo di romanzi: cinico e sentimentale allo stesso tempo, perdente ma non tragico. Politica, amore e alcol gli ingredienti base. Poi, e anzi prima, c’è la scrittura di Greene: elegante, divertente e contemporanea anche a 70 anni di distanza. (Cristiano de Majo)

Hisham Matar – Amici di una vita (Einaudi)
Traduzione di Anna Nadotti
Ho avuto la fortuna, diversi anni fa, di conoscere un uomo cileno, esiliato dal 1973 a causa della sua attività nel partito comunista e nel governo di Salvador Allende. Vive in Italia da allora. Una sera di un settembre di qualche anno fa, per ore, parlammo di quell’esperienza. Mi disse una frase che più o meno ricordo così: la mia vita è stata spezzata dall’esilio, c’è un prima e c’è un dopo, ma non è mai stata la stessa vita. Ci ho pensato leggendo Amici di una vita di Hisham Matar, un romanzo straordinario sull’esilio e l’amicizia di tre ragazzi che diventano uomini eppure le loro esistenze, tutte e tre, sono rimaste spezzate in un punto preciso. Il punto preciso si colloca, nel tempo, nell’aprile 1984, quando una raffica di mitra parte da una finestra dell’ambasciata libica a Londra e ferisce undici manifestanti anti-regime (di Gheddafi). Tra loro ci sono questi amici: Khaled, Mustafa, Hosam. È un libro enorme, questo di Matar, perché accetta una delle sfide più ambiziose della letteratura e la vince: raccontare il processo di crescita di tre uomini dalla giovinezza all’età adulta, lo sfaldarsi lento, come una roccia che si fa scavare dal mare, delle loro gioie, dei loro sogni, delle vite che si immaginavano prima che quel pomeriggio le spezzasse. Non mi capitava da non so quanti anni, di sentire le lacrime spingere da dietro gli occhi mentre leggo un libro. Mi era successo anche quando ascoltavo la storia, quella vera, raccontata dall’amico cileno. (Davide Coppo)

Gerbrand Bakker, Quelli che restano (Iperborea)
Traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo
«Un romanzo sulla solitudine e la singletudine come vocazione esistenziale», diceva la presentazione del nuovo libro di Gerbrand Bakker, Quelli che restano. Ed è aspettandomi questo che ho iniziato a leggerlo. E soffermandoci su questo rigo che con degli amici abbiamo ironizzato. «Ecco il ritratto di una generazione», ci siamo detti. Quando si inizia un libro con queste aspettative, il modo in cui lo si approccia è sfalsato. Si spera di capire di più, di intravedere la sfumatura che non avevi colto. Di trovare la chiave di volta che magari ti fa dire «è così». E invece quello che accade pagina dopo pagina è molto diverso. Si entra nella vita del protagonista, Simon, parrucchiere 40 something di Amsterdam che vive apparentemente una vita leggera fatta di piccole abitudini, sfiorando talvolta le vite degli altri per poi passare oltre, esattamente come quando, quasi ogni mattino, nuotando accarezza l’acqua di una piscina. Si entra nel suo passato e in quello della madre e del nonno, irrimediabilmente segnati da un incidente aereo del 1977, realmente accaduto, che costò la vita a seicento persone, soprattutto olandesi e americane. È lì infatti che è scomparso suo padre, che lui non ha mai conosciuto e che nei decenni è diventato presenza e insieme assenza nelle loro vite e nel modo di fare i conti con i giorni che sono venuti dopo. È quando Simon decide di provare a capire cosa gli è successo che forse quel suo scivolare leggero si inceppa, coinvolgendo anche chi gli sta attorno. Quello che accade pagina dopo pagina di Quelli che restano è molto diverso perché Bakker non ritrae una generazione, non offre chiavi di volta. Non racconta quel tipo di solitudine da meme, da social trend, ma, con un narrare apparentemente leggero, racconta del dolore collettivo che si parcellizza e diventa personale, unico. Delinea lo sfondo della mancanza come ovvia presenza, della ragione di come si è, come senso delle proprie azioni, dei propri sguardi. Di fondamento di una leggerezza che è solo apparente, perché serve solo a sfiorare la superficie, a dire va tutto bene, fino a quando accade – per caso o per desiderio – che si incrini tutto, e allora «ci si toglie gli occhiali e ci si asciuga le lacrime. Senza dire “Mi scusi”, come fanno molti quando piangono in pubblico». Affrontando – e forse in fondo essendo orgogliosi – delle proprie ferite e uniche solitudini, che danno senso a ciò che siamo e fanno guardare oltre. (Teresa Bellemo)

Henry Hoke – Alla gola (Mercurio Books)
Traduzione di Valentina Maini
Henry Hoke è anche lui, come tutti, ossessionato dagli animali di internet. L’idea per Alla gola viene dalla sua fissazione per uno di questi animali, il puma P-22, “il puma di Hollywood”, nomignolo con il quale è diventato famosissimo soprattutto in America. Hoke ha raccontato di aver passato una notevole parte del suo tempo libero a passeggiare nella zona di Los Feliz, vicino a Los Angeles (ai tempi, all’inizio degli anni Dieci, abitava lì), nella speranza di incontrare l’animale che era all’epoca quello che Moo Deng è adesso. Non ci è mai riuscito, Hoke, e la tristezza del mancato incontro è diventata lutto quando P-22 è stato abbattuto e il lutto è diventata ispirazione quando Hoke è stato costretto ad accettare il fatto che quel big cat lui non lo avrebbe mai visto. Quindi se ne è inventato una versione tutta sua e ci ha scritto un romanzo intero, che in inglese è titolato in una maniera che ne spiega perfettamente il senso: Open Throat. Gola aperta, quella di P-22 (o di questo suo surrogato) che si aggira per le montagne attorno a Los Angeles facendo riflessioni innocenti e sarcastiche e spassose sulla fauna che le popola, cioè gli esseri umani che vanno lì a consumare appuntamenti presi su Grindr e a riprendere i tratti delle loro escursioni che meglio funzionano su TikTok, lamentandosi degli elicotteri e del capitalismo. Gola aperta come microfono aperto, come stand-up comedy, con un puma nella parte del comico e le persone – come sempre – in quella degli zimbelli. Ma gola aperta, in questo romanzo, vale anche come immagine di violenza, e della corrispondente bellezza che viene dall’uso della violenza in purezza, nella sua forma naturale, quella della caccia e del pasto, come funzione necessaria alla perpetuazione di tutte le specie. E poi come allusione sessuale, al percorso che porta il puma a riflettere su sesso, sessualità, identità e genere e scegliersi un punto tutto suo nell’ampio spettro della queerness. All gola fa soprattutto ridere, in alcuni tratti paura, in altri colpisce per un uso della lingua capace di giustappore truculenza e dolcezza come raramente riesce agli scrittori (è un romanzo, ma per larghi tratti la forma e la sostanza è quella della poesia, con il testo disposto in strofe e le frasi che diventano versi). Uno dei miei passaggi preferiti di tutto il libro è quello in cui il puma ricorda la madre, struggendosi per la dolcezza che questa dimostrava attraverso la perenne sete di sangue che le permetteva di far crescere sani e forti i suoi cuccioli. È uno di quei libri talmente strani e, per certi versi, incomprensibili che viene difficile descriverlo davvero. Persino al suo autore, viene difficile. Hoke non ha idea di come farlo, ma c’è una definizione che gli piace molto perché è un gioco di parole, e di giochi di parole è pieno tutto il suo libro: «There’s no book queerer than this». (Francesco Gerardi)

Beatrice Sciarrillo – In trasparenza l’anima (66thand2nd)
L’esordio di Beatrice Sciarrillo, 25 anni, torinese, parla di una malattia che non viene mai citata, l’anoressia. La giovane protagonista di questa storia, Anita, viene ricoverata in un reparto psichiatrico, dove conosce altre ragazze come lei (non ci sono uomini nel libro, a parte degli infermieri con cui non si istituisce nessun particolare rapporto: lo sguardo e la presenza maschili sono del tutto irrilevanti). È un mondo a sé stante, quello raccontato, fatto solo di donne, che ruota intorno al conteggio dei passi, allo sviluppo di nuove abilità per riuscire a nascondere il cibo davanti alle infermiere, alla manomissione dell’alimentazione con il sondino naso-gastrico. Insieme alle ragazze c’è una donna molto più grande, Flavia, una presenza sinistra, incancrenita in decenni di malattia, che striscia tra le corsie aiutandosi con una specie di girello e sembra perseguitare Anita, tanto che è difficile capire se esista realmente o se sia una proiezione del suo futuro che la tormenta e la minaccia. Riuscendo a trasmettere una tensione quasi da horror (quando la vecchia e respingente Flavia si infila nel letto di Anita, toccandola, ho rivisto una scena di Pearl di Ti West) Sciarrillo riesce a tenere il lettore in un perenne stato di allerta. Il merito è anche della sua scrittura che sembra fare da specchio alla malattia che racconta, inseguendo il minimo indispensabile, l’essenza. È una storia ripetitiva, claustrofobica, come l’impulso a mentire di Anita – a se stessa e agli altri – quando continua ostinatamente a ripetere a tutti che sta bene, esasperandoli. Eppure, anche in sua questa forma estremamente essenziale, il libro di Sciarrillo riesce a raccontare tantissime cose dell’anoressia: il trauma delle mestruazioni, il dismorfismo corporeo, la sindrome di rialimentazione, il rapporto con lo specchio e con le fotografie, il modo in cui spesso viene utilizzata per riempire un vuoto, una carenza (come dice Anita: «Questa forza interiore, che gli altri vogliono chiamare malattia, è l’unica cosa veramente mia, l’unica che mi fa sentire speciale e io non permetterò a nessuno di rubarmela»). (Clara Mazzoleni)

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