Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a giugno in redazione.

di Studio

Olivia Laing, Il giardino contro il tempo (il Saggiatore)
Traduzione di Katia Bagnoli

Alla fine di giugno è iniziato a circolare, sul solito TikTok, un trend chiamato “rawdogging”: è una specie di sfida che invita i partecipanti a non fare niente durante un volo, possibilmente di una tratta abbastanza lunga. Niente: vietato ascoltare la musica, leggere una rivista, guardare un film, ascoltare un podcast, immergersi in un libro, perfino dormire. Solamente guardare fuori dal finestrino o fissare la mappa di volo sullo schermino davanti a te. L’obiettivo è “to zone out”, perdere coscienza da coscienti, più o meno. Una specie di meditazione. Non so perché l’ho trovato così affine a Il giardino contro il tempo di Olivia Laing, che stavo finendo in quegli stessi giorni. In un certo senso penso che sia simile la forza intellettuale che queste due esperienze richiedono: il “rawdogging” per non cedere alla tentazione di distrarsi, l'”olivialainging” (internet, eccomi, ho coniato un nuovo trend) per rimanere concentrati e “dentro” un libro così bizzarro e fuori dal tempo come questo. Specifico per i lettori, le lettrici, e l’editore soprattutto: è un libro molto singolare, soprattutto in questo momento storico, ma il giudizio è di segno positivo. È innegabile che i primi minuti di immersione nel giardino della Laing richiedano un certo tipo di fatica: perché dobbiamo entrare nella vita di una scrittrice che in quasi 400 pagine ci porta, come in una versione vittoriana di RealTime, nel suo personale “Pimp My Garden”. Laing e il marito comprano quindi questa casa di campagna e iniziano il restauro del giardino: ecco ciliegi, rose antiche, ortensie, rutacee, peonie, felci, anemoni. Staccarci da questo presente di guerre e inflazioni per entrare in chissà quali avventure o traumi altrui tramite la letteratura è ovviamente meno complesso che immergersi in questo tipo di meditazione silvestre. Ma c’è tempo e tempo per certi libri: e l’estate, con l’isolamento che per alcuni porterà, è il momento ideale per Olivia Laing. E non è vero, dopotutto, che questo sia un libro borghese o completamente alienato. Scostando le felci e le violette, sotto un tasso o un tiglio, Laing semina storie e riflessioni estremamente contemporanee: la fine dello spazio pubblico e l’inizio della spartizione privata delle proprietà in Inghilterra, con il movimento delle “enclosure” nel XVIII secolo; le radici dello schiavismo imperiale nei giardini inglesi; il lutto, la malattia e la perdita; e su tutto, costante, l’ombra del Paradiso perduto di Milton, che accompagna Laing lungo tutto il libro con messaggi con un’eco morale: «Il giardino qui è concepito come luogo di sostegno reciproco e di interconnessione, così delicatamente bilanciato che un solo oggetto mancante è sinonimo di disastro. Ciò che sfugge a Eva è che anche lei fa parte di questo fragile ecosistema». (Davide Coppo)

M. John Harrison, Vorrei essere qui (Mercurio Books)
Traduzione di Luca Fusari

Basta solo il titolo, quello originale, per incuriosirsi a questo libro: Wish I Was Here, chiara citazione del titolo del pezzo più citato del gruppo forse dai titoli più citati nella storia della musica, ma in un gioco di parole che gli dà un senso che sta tra l’inquietante e il comico. Vorrei essere qui è la traduzione italiana scelta dall’editore Mercurio Books, perché “Vorrei fossi qui” in italiano sarebbe stato ambiguo (immagino), ma forse sarebbe stato meglio un “Vorrei essere stato qui”, perché avrebbe rispecchiato di più il senso generale di questo libro, che si autodefinisce un anti-memoir e che è, in effetti, una raccolta di appunti che delinea la parabola umana e letteraria di M. John Harrison e del suo personale rapporto con la realtà e con l’immaginazione. Autore di fantasy e di fantascienza piuttosto noto nel Regno Unito, considerato uno dei principali esponenti del weird, ma entrato dalla porta principale della letteratura solo con il recente e magnifico Riaffiorano le terre inabissate (Atlantide, 2020), pubblicato alla veneranda età di 75 anni, Harrison è uno degli ultimi superstiti di quella categoria di scrittori che hanno potuto vivere al tempo stesso dentro e fuori dal mondo. Nel mondo formalmente c’è stato, ma con esperienze e immaginazioni che lo hanno portato a costruirne uno suo, di mondo. Infanzia, ricordi, dialoghi, scene, luoghi, considerazioni sulla letteratura e sulla società, questo libro è un po’ un vademecum per diventare outsider letterari (se mai fosse ancora possibile) e una testimonianza per rimpiangere l’ideale romantico dello scrittore, ma per chi ha amato Riaffiorano le terre inabissate anche un’affascinante panoramica della tavolozza dei colori di questo autore. (Cristiano de Majo)

Gabriella Parca, I sultani (nottetempo)

Consiglio di googlare I sultani e ammirare la meravigliosa copertina rosa shocking del 1965. E poi, però, di leggere l’edizione nottetempo appena pubblicata, con l’ottima prefazione di Ludovica Lugli. Questo volume accompagna e completa Le italiane si confessano (1959), un classico del femminismo italiano, in cui Gabriella Parca, scrittrice e giornalista, indaga la condizione della donna raccogliendo più di trecento lettere mai pubblicate (perché troppo problematiche, scabrose o sessualmente esplicite) ricevute nella posta del cuore di due settimanali femminili. All’inizio degli anni Sessanta decide di mettere insieme una controparte maschile, anche se è molto più difficile: lei e la sua collaboratrice Maria Luisa Piazza devono ricorrere a sindacalisti, assistenti sociali, medici e parroci come garanti e fixer, perché è inconcepibile che due giovani donne vadano in giro a parlare di sesso con uomini sconosciuti. E più nello specifico: del loro primo rapporto sessuale (e, ancora più interessante, della reazione della donna al primo rapporto sessuale, raccontata dal loro punto di vista), di tradimento, divorzio, prostituzione, esperienze omosessuali, ma anche della donna ideale, dei difetti che rendono una donna respingente (piccolo spoiler da brivido: il peggiore difetto di una donna, per gli uomini, è che parli troppo). Alla fine Parca e Piazza riescono a intervistare 1018 uomini di diverse età e condizioni sociali, e questo libro è il preziosissimo (e spaventoso, e avvilente) risultato della loro indagine. Un documento storico, un’analisi purtroppo ancora attuale della mentalità maschile, ma anche una lettura appassionante perché permette di entrare, attraverso le risposte semplici e dirette di questi uomini, in vite così diverse e lontane, eppure, purtroppo, ancora così simili alle nostre. (Clara Mazzoleni)

Charlotte Gneuss, I confidenti (Iperborea)
Traduzione di Silvia Albesano

Siamo in un sobborgo di Dresda nel 1976, la storia è quella di Karin, la sua migliore amica si chiama Marie. In realtà potremmo essere ovunque, in qualsiasi anno, e la protagonista chiamarsi in altri mille modi diversi. Sono i sedici anni a rendere simile la storia raccontata ne I Confidenti di Charlotte Gneuss a quella di mille altre. C’è un amore, Paul, che sembra essere l’unico, il più forte e forse quello più indimenticabile – si dice così – totale e per questo assurdo e dirompente nel suo iniziare come nel suo finire. Ci sono le amiche che crescono e iniziano a desiderare cose diverse da quelle che desideriamo noi, la scoperta del sesso, ci sono i genitori che si allontanano e da cui ci si allontana. Il peso e la bellezza della responsabilità. È il modo in cui quest’ultima entra nella vita di Karin a rendere unica la sua storia. È attraverso questa lente che si mette a fuoco l’ambientazione enormemente differente e che caratterizza tutto: i jeans, le scelte, come passa il tempo. Il blocco sovietico, il capitalismo con la sua vacuità simile a quella dell’amore, che finisce, mentre gli ideali e il socialismo non finiscono mai. Sono le responsabilità, l’educazione sentimentale e un certo tipo di adulthood improvvisa e violenta – ne I Confidenti l’amore finisce perché Paul scappa a ovest – a marcare la differenza: la Stasi, i silenzi, il cinismo imparato d’un fiato e infine i tradimenti. Sembrano tutti uguali i sedici anni, ma a vedere meglio, con la lente di Charlotte Gneuss, sono sempre unici e irripetibili. (Teresa Bellemo)

Fei-Fei Li, Tutti i mondi che vedo (Luiss)
Traduzione di Chiara Veltri

La vita di Fei-Fei Li sembra il primo atto della sceneggiatura di un film di fantascienza: la brillantissima ragazzina cinese, i genitori che faticano ad accettare l’educazione socialista di Mao, la fuga negli Stati Uniti, l’incontro con un barbuto professore alla Parsippany High School del New Jersey che intuisce il genio della ragazzina in un momento in cui a lei manca ancora il vocabolario inglese per esprimerlo, la brillantissima carriera accademica, le pionieristiche ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale, la creazione di ImageNet, il lavoro per una delle più grandi corporation della Silicon Valley (Google). La parte centrale di Tutti i mondi che vedo, il primo libro di Fei-Fei Li – avendo pubblicato più di 300 ricerche, nella vita non è le avanzato molto tempo per scrivere altro che quelle – è proprio un memoir, una saga familiare che si compie nell’american dream: la figlia di lavandai immigrati dalla Repubblica popolare che diventa la “madrina dell’AI”. Di per sé, già questa parte è una lettura appassionante: Fei-Fei Li inizia la sua storia maneggiando un linguaggio in meno (l’inglese) e la finisce avendo grandemente contribuito a inventarne uno in più, nuovo (quello delle macchine) che probabilmente in futuro sarà l’unico a contare davvero. Ma come spesso capita con i libri scritti dai pionieri della scienza, sono gli inserti filosofici quelli che restano impressi. In un momento storico in cui esaltazione e panico si dividono equamente il dibattito pubblico sull’AI, Fei-Fei Li cerca – riuscendoci – di convincere il lettore che l’intelligenza artificiale è una rivoluzione come tutte le altre: un fatto umano i cui esiti saranno gli esseri umani a decidere, speranza o terrore dipenderà da noi. Positivista, ottimista, sono diversi gli aggettivi che si possono usare per descrivere l’approccio di Fei-Fei Li alle macchine (è assai più severa con le persone, come quando racconta con indignazione tutti i brillanti scienziati che hanno abbandonato la ricerca accademica per arricchirsi realizzando i capricci di Big Tech). Anche se la sua parola preferita per descriversi è un’altra: umanista. Perché, dice, per quanto avveniristica possa essere una macchina, non riuscirà mai ad andare oltre i limiti stabiliti dall’essere umano che l’ha costruita. (Francesco Gerardi)