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I libri del mese

Cosa abbiamo letto a novembre in redazione.

di Aa.Vv.
30 Novembre 2018

Julian Barnes, L’unica storia
Einaudi, traduzione di Susanna Basso

Di certo tra le cose più difficili in letteratura – non che ce ne siano molte altre di facili, se le si vuole fare bene, insomma – c’è scrivere di amore e storie d’amore, appunto, bene. Questo “bene”, per Julian Barnes, implica l’interrogarsi costantemente su che cos’è il passato e che ruolo ha la memoria e il ricordo nel nostro racconto – a noi stessi – delle nostre stesse vite. Questo “bene”, per Julian Barnes, si traduce anche nel rovinare la giornata, l’umore, la serata, e forse anche un bel po’ di ore successive alla chiusura del libro, al lettore o lettrice, e anche questo effetto è una delle cose più difficili da ottenere dalla letteratura. L’unica storia è semplicemente il racconto di una storia (d’amore, si intende) che inizia come uno scandalo da circolo del tennis della provincia urbana inglese – lui 19enne, lei più del doppio – e prosegue come avventura, poi come relazione “vera” (qualsiasi cosa voglia dire, e un po’ se lo chiede anche Barnes) e finisce, come molte storie (d’amore, s’intende), male. In mezzo, tutta la filosofia e le domande, senza altrettante risposte, di Julian Barnes, che si erano già viste nello splendido Il senso di una fine, in cui (l’ho riaperto, non me lo ricordavo così bene) il protagonista Tony Webster si chiedeva: «La mia esistenza si era sviluppata, o solo accumulata?». Un sentimento simile è su cui si regge tutto quest’ultimo libro: «Abbiamo quasi tutti un’unica storia da raccontare (…) Ce n’è una sola che conta», dice Paul Roberts, il giovane (all’inizio) protagonista. La scommessa è scegliersi bene questa storia, se possibile, visto che condizionerà tutta un’intera vita, che lo vogliamo o no, nel bene o nel male, o più spesso in entrambe le cose. L’importante è scegliere, poi, come e cosa ricordare meglio: «La vita è una sezione trasversale e la memoria una fenditura che ne attraversa la venatura e la segue dal principio alla fine». (Davide Coppo)

Peter Cameron – Gli inconvenienti della vita 
Adelphi,  traduzione di Giuseppina Oneto

Un incidente stradale, l’arrivo inaspettato di una famiglia che ha bisogno di un tetto sotto cui dormire. Possono essere svariati i motivi per cui quello che c’era prima smette improvvisamente di esserci. A volte si tratta di un momento, una biforcazione, e noi, ignari, prendiamo una delle due strade. In astrologia si parla di “Luna nuova progressa”, un giorno che cade ogni ventotto anni e che fa da spartiacque. Ne Gli inconvenienti della vitadi Peter Cameron, che in Italia esce per Adelphi in contemporanea all’edizione inglese, i racconti sono due. “La fine della mia vita a New Yorkè amaro e alto-borghese, dove Theo, docente di mezz’età privo ormai di slancio e ispirazione a causa di un incidente, si lascia andare nonostante il compagno Stefano e l’amica Natasha provino a riportarlo a trovarne. «Siamo tutti dei piatti. E siamo in attesa di romperci», dice Theo alla fine del racconto. “Dopo l’inondazioneracconta in prima persona la vita di provincia e di nozze ormai sbiadite di Mrs Bird, la cui vita viene sconvolta dagli Escobedo, famiglia che ha perso la casa a causa di un’inondazione, appunto. L’abitudine si rompe e la voglia di sfruttare questa crepa – ecco l’altra faccia del nostro essere piatti pronti a rompersi – scuote la noia della vita domestica. Anche in questo volumetto Peter Cameron riesce a raccontare da diverse angolazioni ciò che fa parte di noi, di tutti – l’abitudine, la frustrazione, il nostro chiederci a che serve, tutto – con leggerezza spietata, quando non ironica (come i guizzi delle numerose parentesi del secondo racconto). (Teresa Bellemo)

Denis Johnson – Jesus’ Son
Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi

Ritorna nei Supercoralli, in un singolare passaggio di testimone da Stile libero (per cui era uscito nel 2000) a casa madre e in una nuova traduzione, quello che ormai è considerato uno dei testi sacri della narrativa americana, non solo per la solita glorificazione post-mortem  toccata al suo autore, dopo la scomparsa nel 2017. Prima del suo ultimo libro ambientato in Africa tra mercanti di armi e spie (Mostri che ridono, uscito in originale nel 2014), prima di quello che è considerato il suo capolavoro, Albero di fumo, romanzo mostruoso sulla guerra del Vietnam, vincitore del National Book Award nel 2007, nel 1992, alla sua quarta prova narrativa, Johnson componeva questa piccola ma indimenticabile raccolta di scene viste sempre dagli stessi occhi, quella di un tossico-alcolizzato-emarginato della provincia americana; da notare che raramente gli scrittori riescono, come Johnson, a dare il meglio di sé oscillando tra i due poli del massimalismo e del minimalismo. Qui siamo dalle parti di quell’epica degli ultimi e della desolazione di provincia che costituisce un corpus ingombrante nel racconto americano. La sola idea potrebbe quindi allontanare il lettore ormai saturo di paesaggi squallidi, baracche, vite di merda. Eppure Jesus’ Son ha molto altro da dire: in primis per la sua inafferrabile dimensione metafisica, in secondo luogo, e soprattutto, per la sua prosa. Limpidissima e disarmante, fa pensare a Grace Paley (con cui condivide anche l’idea di una raccolta di racconti che non sono racconti ma pezzi di vita di un unico protagonista): «Stava piovendo. Felci gigantesche pendevano su di noi. La foresta digradava giù per una collina. Sentivo un correre tra le rocce. E voi, gente ridicola, voi vi aspettate che io vi aiuti», si legge alla fine della prima impressionante scena, che racconta una tremendo incidente stradale. (Cristiano de Majo)

Sébastien Japrisot, La cattiva strada
Adelphi, traduzione di Simona Mambrini

L’amore tra Asia Argento e Fabrizio Corona è già finito, dicono i giornali. Breve ma utile: ha fruttato un paio di interviste esclusive a Argento, fresca di espulsione da X-Factor, e una rinnovata attenzione nei confronti del bello e dannato. Non solo: ha anche risvegliato in me il desiderio di leggere un libro che avevo acquistato tempo fa e poi dimenticato: La cattiva strada (2016, Mondadori), il secondo memoir di Fabrizio Corona (il primo, Mea Culpa, è del 2014). Per come la racconta lui stesso e per come la raccontano gli altri, la storia del personaggio Corona è sempre legata a una retorica cristiana: la tentazione, il peccato, il pentimento, la confessione, l’espiazione, la comunione, il ricongiungimento, il perdono, ecc. Anche per questo motivo sono rimasta di sasso quando, proprio nei giorni in cui avevo iniziato a leggere La cattiva strada, tra le mani mi sono trovata un elegantissimo libro Adelphi con lo stesso titolo, che racconta dell’amore tra un ragazzo quattordicenne e una suora di 26 anni. L’autore è Sébastien Japrisot, scrittore, regista e traduttore, tra le altre cose, di Nove racconti e Il giovane Holden di J.D. Salinger. Morto nel 2003, pubblicò La cattiva strada (titolo originale: Les Mal Partis) nel 1950, all’età di 19 anni: il libro fu un mezzo flop in Francia ma andò benissimo negli Stati Uniti. Japrisot sembra aver ricevuto lo stesso dono di Raymond Radiguet, il più famoso autore di Il diavolo in corpo, altro mini-capolavoro di fuoco scritto da un teenager, altra storia d’amore struggente tra un ragazzino e una donna più grande. È difficile, a quell’età, trovare le parole giuste per descrivere il desiderio doloroso e l’egoismo splendente (ci abbiamo provato in tanti, i risultati sono stati giustamente eliminati). Lui c’è riuscito: seguire i tremiti e i rossori di Suor Clotilde e di Denis, uno scapestrato che però «nei temi prende sempre il massimo dei voti», è un vero piacere, così come assistere alla routine della scuola maschile frequentata dal ragazzo e al modo in cui il sesso e la Guerra interrompono le fantasticherie e chiamano all’azione. È finita che ho sospeso la lettura di Corona (ma la riprenderò: non era poi così male), e mi sono messa a leggere questo racconto puro e caldo, oscillante, che parla di tantissime cose diverse: la noia dell’adolescenza, la solitudine che si prova in una relazione, il desiderio così forte che fa male, il bisogno di credere in qualcosa, l’amore come forza brutale che costringe a crescere e cambiare. (Clara Mazzoleni)

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