Attualità
I libri del mese
Cosa hanno letto ad aprile i collaboratori di Studio e cosa abbiamo amato in redazione.

Rivka Galchen – Innovazioni americane (Einaudi) trad. Anna Rusconi
C’è stato un momento nella narrativa americana, diciamo intorno agli anni Novanta, in cui gli scrittori sembravano fare a gara a chi inventava le cose più strane. Nella considerazione dei lettori a caccia di trend, la forza di un romanzo o di un racconto era direttamente proporzionale al suo grado di capacità immaginativa e simbolica. La reazione negli anni successivi, che arrivano fino a oggi, è stato un deciso ritorno al realismo anche per gli scrittori che si sono avventurati su strade più sperimentali (vedi Ben Lerner). È abbastanza curioso quindi ritrovarsi tra le mani questo libro che, invece, sembra figlio dei vari Wallace, Lethem, Mark Leyner, eccetera. Un libro di racconti strambi dove succedono cose improbabili e simboliche. Eppure c’è una grana difficilmente spiegabile che rende Innovazioni americane una raccolta per niente derivativa. Innanzitutto la naturalezza, lo stile piano, la linearità utilizzata da Galchen, che assurdamente ricorda il realismo ultra-quotidiano di Grace Paley. E poi la mancanza di forzature che rende possibili le cose che succedono in queste storie senza fartele sembrare fuochi d’artificio di maniera. Il racconto più esemplare che sceglierei è “La zona della dissimilitudine”, dove una donna newyorkese e single conosce a un bar una coppia di uomini strani, intelligentissimi, attori di complicate disquisizioni filosofiche, di cui diventa amica. Ne nasce un’intricata relazione a tre, che si svolge tra sparizioni, sospetti di follia e l’ipotesi che uno dei personaggi provenga dal futuro. «In seguito però arrivai a pensare, a momenti, almeno, che in realtà si trattasse al tempo stesso di un depistaggio e di una specie di indizio che alludeva a un segreto enorme, un segreto che non avrebbero mai condiviso con me». Mi viene da pensare che forse ciò che distingue Innovazioni americane dalla narrativa di immaginazione degli anni Novanta riguarda l’assoluta mancanza di intenzioni critiche nei confronti del “sistema”. Sono sempre, quelle della Galchen, storie che parlano di umanità e di relazioni tra persone; sono spesso storie che parlano di sentimenti.
Michael Pollan – Una seconda natura (Adelphi) trad. Isabella C. Blum

Edna O’Brien – Oggetto d’amore (Einaudi Stile Libero) trad. Giovanna Granato

Daniele Del Giudice – I racconti (Einaudi)
Non ho mai riletto un romanzo (non intenzionalmente: con un classico russo m’è capitato di accorgermi soltanto a pagina ottocento-e-qualcosa di averlo già letto), in compenso rileggo volentieri i racconti, specie se sono ripubblicati in una raccolta diversa dall’originale. È stuzzicante osservare come cambiano il contesto e il paratesto, come il racconto x, che prima era insieme al racconto y, ora s’accompagna al racconto z, che effetto fa una copertina diversa. Poi c’è quell’ansia allettante nell’ispezionare i segni del tempo: com’è triste quando ci si accorge che un racconto è invecchiato, o che siamo invecchiati noi, che l’abbiamo trovato così bello da liceali ma ora non possiamo che constatare la sua banalità; e quanto è rasserenante quando invece accade il contrario. Einaudi ha appena pubblicato una raccolta, intitolata I racconti, di Daniele Del Giudice. I cinque più vecchi erano stati pubblicati in Mania, del 1997, che fu la prima raccolta di racconti per adulti che mi capitò di leggere e che amai moltissimo (ma non ero una lettrice esigente e manco sapevo che esistesse Dürrenmatt). Tra questi ce n’era uno, “L’orecchio assoluto”, che parla di polvere e di pesci e di melodie, o meglio del ri-ascoltare una melodia, cui ho pensato spesso negli ultimi 19 anni senza mai riprenderlo in mano fino ad oggi. Sono contenta di averlo fatto. È bello accorgersi di come alcuni racconti invecchino bene, pure invecchiando parecchio. Fa strano, per restare nella raccolta, pensare che “Com’è adesso!” sia stato scritto in un’era senza reality né social media, e come faccia tutto un altro effetto, ma pur sempre un bell’effetto, adesso. Fa piacere scoprire che, anche quando eravamo lettori ingenui, poteva capitare, tra i mille abbagli, di riconoscere un buon racconto.
Ester Armanino – L’Arca (Einaudi)
Se questo romanzo fosse un’operetta morale, si intitolerebbe Dialogo tra Noè, un bambino e la morte. O forse, Dialogo tra un drago orbo e una stella. La libera associazione con le Operette morali non è casuale. Più che la storia di due sorelle diverse che si ritrovano (Avventatezza e Sventatezza), più che la storia di una giovane madre che muore, e perfino più della storia di un bambino che accompagna la mamma malata nel suo viaggio estremo, infatti, il romanzo frammentario di Ester Armanino è uno continuo confronto dell’uomo con la natura. Lungo tutto il libro, scroscia senza sosta l’impossibile diluvio biblico del titolo. I capitoli brevi, sempre sospesi prima che il lettore venga soddisfatto, sono come lampi di un temporale che illuminano una scena densa di particolari; troppo brevemente, ma a sufficienza per lasciarlo abbagliato, con l’immagine stampata negli occhi. L’Arca (è il nome della clinica dove lavora Teresa/Avventatezza, dove Nadia/Sventatezza vive la sua agonia, e dove il piccolo Pietro si trasferisce con la mamma) è un romanzo pieno di animali: Pietro, in campagna, viveva col suo cane e lottava con gli scarafaggi, vedeva i cinghiali e agognava l’amicizia col lupo, Teresa si lascia leccare controvoglia dal gatto, i topi scappano dalle fognature per l’alluvione, una gazza acchiappa scaglie di Lego lucenti sul tetto della clinica, Pietro legge assiduamente un bestiaro fantastico e assiste al sanguinario parto di un elefante. L’Arca è un romanzo sulla natura, su un suo voltafaccia improvviso. Eppure, leopardianamente, sembra quasi che siano la città, il macchinario ospedaliero, la scala antincendio, i veri assassini della protagonista: un’artista che, per vivere, camminava nei boschi con la luna e si calava nelle grotte. Scorre, parallelamente alla trama del libro, la potente fiaba che Pietro si racconta in mente per trasfigurare l’ospedale e la morte, e quella che gli narra di notte il vecchissimo paziente “Noè”: un tempo, i draghi vivevano in pace parlando la lingua delle stelle; poi è arrivato l’uomo.