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Forse non siamo abbastanza adulti per vedere Hit Man

Dopo aver entusiasmato la critica all'ultima Mostra del cinema di Venezia e nei festival di mezzo mondo, il nuovo film di Richard Linklater arriva oggi nelle sale italiane.

di Stefano Piri

Parli in un articolo di “chimica” tra un uomo e una donna ed è subito oroscopo, ma mi gioco il jolly perché dovremo ben dare un nome a ciò che scorre tra Adria Arjona e Glen Powell in Hit Man, il nuovo film di Richard Linklater che arriva nelle sale italiane il 27 giugno.

Un film dal genere spurio, che potremmo definire black romantic comedy, nel quale Powell interpreta un mite professore di filosofia, Gary – per fortuna di Linklater viviamo in un’epoca in cui non è così inverosimile che un mite professore di filosofia che vive con due gatti e guida una Civic abbia il fisico da istruttore di crossfit di Glen Powell – che nel tempo libero lavora sotto copertura con la polizia fingendosi un sicario (Ron).

Gary si rivela un maestro del travestimento, infallibile nel condurre i potenziali mandanti a incriminarsi da sé, finché non incontra Madison/Arjona, che vorrebbe assumerlo per liquidare il marito violento. Riesce a dissuaderla, ma senza smettere i panni di Ron, che da assassino a pagamento diventa per Madison una sorta di oscuro e affascinante angelo redentore. Seguono passione irrefrenabile, malintesi, rivelazioni, pillole di Nietzsche e di Freud.

«Ho detto [a Glenn Powell, che aveva già recitato con lui in Everybody Wants Some e Apollo 10 ½, e in questo caso esordisce come co-sceneggiatore, nda] ci sarà sesso, sarà passionale, sarà carnale, sarà il desiderio a muovere tutto», ha detto Linklater alla Bbc, a proposito delle prime fasi della scrittura. «La gente dice che non c’è più sesso nei film, ma secondo me manca proprio la dimensione adulta, perché nei film il sesso equivale alla dimensione adulta».

Hit Man ha debuttato a Venezia 2023, quasi un anno fa, entusiasmando pubblico e critica (io c’ero e posso testimoniare che la massa dei critici, solitamente silenziosissima per una gamma di ragioni che va dall’estasi al torpore, si sganasciava come se gli avessero sciolto qualcosa nel macchiato tiepido) senza avere ancora una distribuzione americana. C’è voluta questa accoglienza trionfale, seguita da esiti analoghi a Toronto e Londra, perché se lo comprasse Netflix, a detta di Linklater senza che la concorrenza si strappasse esattamente le vesti.

Secondo Linklater il motivo è un’involuzione che lui riassume così: «A 13 anni vedevo i film e il mondo degli adulti sembrava parecchio interessante, divertente, pensavo “non vedo l’ora di essere lì” (…) non solo per il sesso, ma per le situazioni adulte che mostravano (..) Ma a un certo punto Hollywood ha invertito la rotta. È come se avessero detto: “Faremo film in cui potrai avere 13 anni per sempre, resterai un ragazzino con preoccupazioni da ragazzino”, quindi credo sia iniziata una deriva in cui le complessità non erano più oggetto del cinema mainstream».

Va bene, sono dichiarazioni un po’ da boomer, e non si capisce perché i registi maturi collochino sempre la prima chiamata delle muse in questo genere di elegie puberali, come se l’arte nel maschio fosse secreta per vie endocrine. Ma Linklater non è uno che parla a vanvera, la questione che solleva merita di essere presa sul serio. A maggio si è parlato molto dello studio, commissionato da un giornalista dell’Economist, secondo il quale le scene di sesso nei film di maggior successo sono diminuite, dal 2000 a oggi, addirittura del 40 per cento, ma forse le metriche quantitative non hanno il pescaggio per cogliere appieno un vero e proprio smottamento culturale.

Hollywood per decenni è stata un’agenzia – forse la principale – di emancipazione, scoperta e decodificazione del desiderio. Più la società era repressa, più le persone trovavano nei film modelli di desiderio e di condotta sessuale. Sul grande schermo è molto più importante (e difficile) saper fingere credibilmente di volersi scopare qualcuno che di volerlo ammazzare, e infatti è sulla base del primo tipo di body count che vengono distribuite la gloria e l’immortalità cinematografica, dai tempi di Bogart e la Bacall, di Valentino e la Garbo. Diversi tra i generi su cui Hollywood è stata edificata (lei, e le ville da mille e una notte dei suoi produttori), come il noir degli anni ‘50 o il thriller erotico dei ‘90, erano in un certo senso complessi sistemi di sublimazione e rappresentazione del problema erotico nelle loro epoche. Marylin diceva: «Hollywood è un posto dove pagano 1000 dollari per un bacio e 50 centesimi per la tua anima».

Oggi non è più così, l’anima si è molto rivalutata. La fluidità della Gen Z – che secondo i sondaggi di gradimento vorrebbe ancora meno scene di sesso nei film – assomiglia molto a un crescente disinteresse per il sesso, e questa che i magazine degli adulti chiamano pensosamente recessione sessuale sembra invece essere vissuta dai diretti interessati come un’emancipazione. In Barbie, che piaccia o meno è un’opera generazionale, c’è una scena in cui Ken/Ryan Gosling vorrebbe salire in camera di Barbie/Margot Robbie, ma nessuno dei due sa bene cosa poi dovrebbero farci. È una gag azzeccata anche al di là delle intenzioni, che potrebbe riflettersi su una generazione che non sa che farsene dei genitali, e forse fantastica di farne a meno.

Non a caso Hit Man si muove in un territorio caro a chi ha iniziato a andare al cinema negli anni Novanta o nei primi Duemila, quando i generi venivano intrecciati ma erano distinguibili, non ancora sciolti nell’ubiqua lega che ha fatto le fortune, per dire, tanto di Netflix quanto dell’MCU. Nell’elettricità degli scambi tra Powell e Ariona si ritrovano William Hurt e Kathleen Turner in Brivido caldo, Clooney e Jennifer Lopez chiusi nel bagagliaio da Soderbergh in Out of Sight, sempre Clooney e Catherine Zeta-Jones in Prima ti sposo, poi ti rovino, oltre naturalmente a Brad e Angelina in Mr. and Mrs. Smith.  Sono film in cui il desiderio non è politicizzato, non è nemmeno tematizzato, è la forza primaria che muove i personaggi e soprattutto permette al pubblico di entrare in relazione con loro.

Dopo pochi minuti la voce fuori campo di Gary/Ron ci informa che in realtà «i killer a contratto non esistono», ma ciò non impedisce alla gente, che li ha visti nei film e in tv, di tentare di ingaggiarne uno. Il suo lavoro, spiega Gary, è quindi quello di «incarnare una fantasia». Questo è il trompe l’oeil che tiene insieme i due estremi del film, quello poliziesco e quello romantico: Gary/Ron scegliendo di redimere Maddy invece di incastrarla finisce per incarnare un’altra “total pop culture fantasy” capace di produrre effetti molto reali nella vita delle persone: quella dell’amore romantico, passionale, misterioso.

Non è un caso che questa scena angolare e quella nel prefinale che risolve il conflitto, quando Gary e Ron diventano definitivamente la stessa cosa, la sintesi tra fantasia e realtà, siano le uniche due in cui Linklater inserisce riferimenti diretti e inequivocabili al cinema. Nella prima, l’esposizione di Gary è illustrata da un cut di scene di film sui sicari, da Professione: assassino a In Bruges. Nella seconda, a cui provo a riferirmi in modalità spoiler-free, Gary “dirige” Madison come un regista fa con un’attrice, appropriandosi della fantasia di lei e rendendola in qualche modo reale.

Questa idea della fantasia che prevale sulla realtà in modo anche violento è del resto alla base dell’ideazione stessa di Hit Man: Gary Johnson è esistito realmente, e Linklater aveva letto un articolo di Texas Monthly su di lui più di vent’anni fa. Non era però mai riuscito a trarne un’idea convincente per un film, finché insieme a Powell non hanno deciso di partire da un aneddoto appena accennato sul giornale – il vero Johnson, in effetti, dissuase una donna dall’uccidere il marito – e svilupparla nel regno della finzione. È questo trionfo materiale dell’immaginazione a rendere possibile il finale di Hit Man, forse la parte più azzeccata e gratificante del film.

Evidentemente Hit Man non è l’opera controculturale che temeva Linklater, o il pubblico è meno quacchero di quanto pensasse, perché è rimasto per 10 giorni alla posizione numero 1 dei film più visti su Netflix negli Stati Uniti, il record sulla piattaforma nel 2024. Un trionfo in streaming che, come ha scritto il Los Angeles Times, aumenta i rimpianti per la cecità degli studios che non lo hanno distribuito nelle sale «sabotando la miglior qualità del film: che funziona proprio bene con un pubblico».