Seconda parte di una guida minima all’orientamento nella letteratura di Roberto Bolaño, di cui Adelphi ha recentemente pubblicato il libro fondamentale, I detective selvaggi. La prima parte è qui
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Come scrivevo nella prima parte di questa guida minima a Roberto Bolaño, uscita in occasione della pubblicazione italiana di I detective selvaggi per Adelphi, il successo internazionale dello scrittore è cresciuto più o meno di pari passo con le speculazioni poco letterarie sulla sua vita privata, sulle sue convinzioni personali, sul suo piacere per l’eroina, per il sesso, per l’alcol, per la sinistra o per la destra, per il lavoro, per il Cile, per l’esilio, per il Messico, per Garcia Marquez, Isabel Allende o Nicanor Parra. Come scriveva soprattutto Horacios Castellanos Moya nel 2008, sembra che attraverso Bolaño l’industria culturale nordamericana abbia voluto ridefinire i contorni della loro idea di Sud America, abbandonando il realismo magico venduto qualche decennio prima e presentando al pubblico un Rimbaud cileno, esule, morto prematuramente e quindi morto in circostanze pregne di fascino letterario, maledetto. Cosa che, scrive Castellanos Moya, non rispecchia la realtà e rappresenta un furbo tentativo di creare un prodotto vendibile, un’icona letteraria mitica per imbellettare una letteratura (ma di questo, e piuttosto a lungo, si può leggere appunto nella prima parte. E questa è la seconda). Per questo, questo sequel della guida minima a Roberto Bolaño, in cui si parlerà di racconti, di interviste, di discorsi, di saggi, di articoli di giornale, inizia con un libro che svela il Bolaño più personale, così:
Tra parentesi
Il sottotitolo è “Saggi, articoli e discorsi (1998-2003)”, quindi il Bolaño qui raccolto è un Bolaño lontano dal ragazzino che vagava per il Sud e il Centro America, che fondava movimenti infrarealisti, è uno scrittore affermato che ha appena pubblicato o sta per pubblicare il romanzo più importante della sua vita vissuta su questo mondo, I detective selvaggi. È, Tra parentesi, uno dei libri che ho sottolineato di più, ma questo potrebbe derivare dalla mia passione per le interviste, per gli articoli, per gli autoritratti e gli scorci di vita privata. Il primo testo è proprio una presentazione di Roberto Bolaño scritta da Roberto Bolaño. Si chiama semplicemente “Apertura. Autoritratto” ed è stata scritta nel 1999 per il Premio Rómulo Gallegos, vinto proprio con I detective. Inizia con: «Sono nato nel 1953, l’anno in cui morirono Stalin e Dylan Thomas. Nel 1973 fui incarcerato per otto giorni dai militari golpisti del mio paese, e nella palestra dove venivano tenuti i prigionieri politici trovai una rivista inglese con un reportage fotografico sulla casa di Dylan Thomas nel Galles». Poi, discostandosi immediatamente dall’autobiografia, Bolaño inserisce un sogno che ha fatto (o non ha fatto) in prigione, un sogno in cui ci sono lui, Dylan Thomas e Stalin, in un bar di Città del Messico, che bevono whisky e giocano a braccio di ferro. La dimensione del sogno è una dimensione enormemente usata in Bolaño, ci sono sogni ogni qualche decina di pagine, sogni che evocano inquietudine, sogni che servono ad aprire spunti per nuove storie, sogni che aprono abissi, sogni che portano nuove immagini il cui carico non è nessun altro se non immaginifico, e nuovi racconti il cui scopo si esaurisce nel semplice racconto. Poi, Bolaño parla anche dei suoi libri, per quasi tutti ha un giudizio brevissimo. Poi ancora, alla fine: «Anche se da più di vent’anni vivo in Europa, la mia sola nazionalità è quella cilena, ma ciò non impedisce che io mi senta profondamente spagnolo e latinoamericano». E infine: «Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo». In questo libro Bolaño parla di letteratura, di America Latina, di se stesso, di politica, di amore.
Poco più avanti, per chi comunque volesse ottundersi a collocare Bolaño a destra oppure a sinistra (e anche per chi si diverte a equiparare destra e sinistra, e per chi fosse interessato all’origine della quasi ossessione dello scrittore per il male, e per chi fosse interessato alle cose scritte bene, e basta): «In Cile la sinistra ha commesso crimini verbali, crimini morali, e probabilmente ha ucciso delle persone. Ma non ha mai infilato topi vivi nella vagina di una ragazza. Non ha avuto il tempo di creare il suo male, non ha avuto il tempo di creare i suoi campi di lavoro forzato. È possibile che se ne avesse avuto il tempo l’avrebbe fatto? Certo che è possibile. Nulla, nella storia del nostro secolo, lascia supporre una storia parallela più ottimistica. Ma la verità è che i campi di concentramento in Cile non sono stati opera della sinistra, né le fucilazioni, né le torture, né i desaparecidos, né la repressione. Tutto questo l’ha fatto la destra». Questa parte è parte di un commovente e intimo discorso sull’esilio, sul suo ritorno in Cile. Che cos’è l’esilio, per Bolaño? «Andare in esilio non è scomparire ma rimpiccolire, ridursi lentamente o a velocità vertiginosa fino a raggiungere la vera statura dell’essere». E che cos’è la patria, invece, lo spiega nella sua ultima intervista, un’intervista rilasciata a Mónica Maristain per l’edizione messicana di Playboy. Alla domanda «Cos’è la patria per lei?» Roberto Bolaño risponde: «Mi spiace di doverti dare una risposta sentimentale. La mia unica patria sono i miei due figli: Lautaro e Alexandra. E forse, ma in secondo piano, alcuni istanti, alcune strade, alcuni volti o scene o libri che sono dentro di me e che un giorno dimenticherò, che è la cosa migliore che si possa fare con la patria».
E ancora sul potere e letteratura: «Cosa avrebbe detto a Salvador Allende se l’avesse conosciuto?» «Poco o niente. Chi detiene il potere (anche per poco tempo) non sa nulla di letteratura, gli interessa solo il potere. E io posso essere il buffone dei miei lettori, se mi va, ma mai dei potenti». E sul paradiso: «Com’è il paradiso?» «Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani. Un posto che si consuma e si logora e sa che nulla perdura, nemmeno il paradiso, e che questo in fin dei conti non importa». E sui cuscini: «Quali cose, di tutto quel che le hanno detto i lettori sui suoi libri, l’hanno commossa?» «Mi commuovono i lettori puri, quelli che hanno ancora il coraggio di leggere il Dizionario filosofico di Voltaire, che è una delle opere più moderne e amene che conosco. Mi commuovono i giovani di ferro che leggono Cortazar e Parra, proprio come li lessi io e come cerco di continuare a leggerli. Mi commuovono i giovani che si addormentano con un libro sotto la testa. Un libro è il miglior cuscino che ci sia». E sulla vita: «Confessa che ha vissuto?» «Sono ancora vivo, continuo a leggere, continuo a scrivere e a vedere film e, come disse Arturo Prat all’equipaggio suicida dell’Esmeralda, finché avrò vita, questa bandiera sventolerà».
Chiamate telefoniche
È un libro di racconti piuttosto breve (272 pagine nell’edizione Adelphi – Piccola Biblioteca), fatto di quattordici racconti a loro volta divisi in tre sezioni: Chiamate telefoniche, I Detective, Vita di Anne Moore. Bolaño ha pubblicato soltanto due raccolte di racconti in vita: una è questa, l’altra è Puttane assassine, introvabile in Italia (almeno per me, che ho ripiegato sull’edizione spagnola). La prima parte di Chiamate telefoniche parla di letteratura, la seconda parte parla di persone, ossia ritratti, oppure di politica, e la terza parte parla di donne, di sesso e di amore. Sono tutti racconti belli, se “belli” vuol dire qualcosa (ma non posso mettermi qui a parlare di tutti e quattordici i racconti, no?), ma gli ultimi quattro, quelli dedicati alle donne o al sesso o all’amore, sono i miei preferiti, e soprattutto i primi due di questi quattro. Nel primo, “Compagni di cella”, il narratore (forse l’Arturo Belano alter-ego di Roberto Bolaño e protagonista di I detective selvaggi) parla della sua storia con Sofia. È una relazione raccontata con toni scarni, con colori smunti, una relazione che si interrompe perché Sofia, come ubbidendo a degli ordini in silenzio, se ne va dal narratore, scopa con altri, scivola verso la pazzia, verso la depressione o un’oscurità inquietante. “Clara” parla di Clara, un fugace amore adolescenziale del narratore, che si perde nei bivi della vita, come capita a tutti. E parla del ritrovare gli amori adolescenziali anni, lustri, decenni dopo, ritrovarli tristi, cambiati, svuotati, ingrassati, depressi, allucinati, drogati. È profondamente umano e irrimediabilmente cinico, o crudele.
Quando la vidi faticai a riconoscerla. Era ingrassata e il suo volto, nonostante il trucco, mostrava i segni, più che degli anni, delle frustrazioni, cosa che mi sorprese perché io in fondo non avevo mai creduto che Clara aspirasse a qualcosa. E se non aspiri a niente, di cosa puoi essere frustrato? Anche il suo sorriso aveva subìto un cambiamento: prima era caloroso e un po’ ebete, in fin dei conti il sorriso di una signorina di una città di provincia, mentre adesso era un sorriso meschino, un sorriso pungente nel quale era facile leggere il risentimento, la rabbia, l’invidia. Ci baciammo sulle guance come due imbecilli e poi ci sedemmo e per un po’ non sapemmo cosa dire. Fui io a rompere il silenzio. Le chiesi di suo figlio, mi disse che era all’asilo e poi lei mi chiese del mio. Sta bene, dissi. Entrambi ci rendemmo conto che se non facevamo qualcosa quello sarebbe stato un incontro di una tristezza insopportabile. Come mi trovi? disse Clara. Suonò come se mi chiedesse di prenderla a schiaffi. Come sempre, risposi automaticamente. Ricordo che bevemmo un caffè e dopo facemmo una passeggiata lungo un viale di platani che conduceva direttamente alla stazione. Il mio treno sarebbe partito di lì a poco. Ma ci salutammo all’entrata della stazione e non la rividi mai più.
Il gaucho insostenibile
È la terza raccolta di racconti, uscita postuma nel 2003, e un libro decisamente non indispensabile. I racconti qui sono pochi, soltanto cinque (più due brevi saggi), e quello che dà il nome alla raccolta è il più lungo di tutti. Il primo, invece, è lungo appena tre pagine, e parla di un americano, Jim, fermo su un marciapiede di Città del Messico a guardare un mangiafuoco. E basta. “Il gaucho insostenibile” (il racconto) sembra attingere molto a Cortazar (al Cortazar di Bestiario) ma senza la stessa forza visionaria e fantastica. Il gaucho è un avvocato porteño che lascia Buenos Aires per trasferirsi nella pampa, e nella pampa inizia a trasformarsi in un gaucho o nella parodia di un gaucho, dell’immagine tradizionale di gaucho. C’è anche un racconto, “Il poliziotto dei topi”, ambientato in un mondo di topi, topi parlanti, anche topi assassini, topi superstiziosi, topi che non dovrebbero uccidere altri topi – è questa la credenza – eppure lo fanno: anche qui gli echi di Cortazar sono molti, e sono affiancati da quelli di Sabato, del Sabato di Sopra eroi e tombe. Il gaucho insostenibile (che si chiude con due saggi, uno sulla malattia e la letteratura, scritto da un Bolaño conscio della morte vicinissima) fu pubblicato postumo ma su esplicita volontà dello scrittore: due settimane prima di morire, dopo essersi sentito molto male, sputando o vomitando sangue, stampò una copia del futuro libro, si fece accompagnare a Barcellona rifiutando di andare in ospedale e la consegnò al suo editore. Era il 29 giugno. Dopo poche ore venne portato all’ospedale davvero, e acconsentì, come se la consegna di quell’ultimo libro fosse l’ultimo sacrificio da sostenere per la propria vita, o per un’idea, e lì morì.