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Come combattere una guerriglia urbana

Intervista a John Spencer, ex militare, studioso di conflitti urbani e autore del Mini-Manual for the Urban Defender, scritto per aiutare gli ucraini a difendere le loro città dall'invasione russa.

06 Luglio 2022

John Spencer non è il tipo di persona che ti spiega come fare una molotov. È il tipo di persona che ti spiega come lanciare una molotov massimizzando le probabilità di uccidere e minimizzando quelle di rimanere ucciso tu stesso. Ex militare statunitense, studia da decenni i conflitti urbani: ha combattuto la guerra in Iraq, partecipando all’invasione del 2003 e poi tornandoci nel 2008, ha insegnato a West Point, oggi è presidente dell’Urban Warfare Studies presso il Madison Policy Forum, un think tank di New York. Il suo coinvolgimento nella guerra in Ucraina – indiretto e «da privato cittadino», come Spencer tiene a precisare quando lo contattiamo al telefono – è iniziato il 26 febbraio, terzo giorno dell’invasione russa, secondo giorno della battaglia di Kyiv. Il governo ucraino aveva appena introdotto la legge marziale e proibito a tutti gli uomini sotto i sessant’anni di lasciare il Paese, il ministero della Difesa aveva diffuso un comunicato brutalmente chiaro: «Preparate molotov, distruggete l’occupante!». È stato in quel momento, quando i civili ucraini hanno iniziato a dare vita alla resistenza armata, che l’ex soldato americano ha pensato che forse poteva fare qualcosa, che quello era il suo campo di expertise: come combattere una guerriglia urbana, come uccidere senza essere ucciso.

Così, come spesso fanno le persone che pensano di potere fare qualcosa, ha postato un thread su Twitter. «Mi hanno chiesto quale potrebbe essere il mio consiglio ai civili che stanno resistendo in Ucraina, specialmente a Kyiv. Persone senza un addestramento militare ma con la voglia di resistere. Un po’ di cose». Prima dritta, la città dà vantaggio a chi gioca in difesa: «La difesa urbana è l’incubo di ogni soldato. In genere servono cinque uomini in attacco per ogni uomo in difesa». Seconda dritta: «Costruite ostacoli nelle strade, usate i ponti, dovete distruggerli, bloccate le vie con auto, camion, cemento, qualsiasi cosa». E ancora: «Mai stare all’aperto per sparare o lanciare qualsiasi cosa, incluse molotov, contro i soldati e veicoli russi. Lanciate e sparate da finestre, dietro automobili, costruite postazioni, meglio se di cemento, dietro cui sparare». Sempre sulle molotov: «Certo, usatele, ma pensate bene dove vi trovate quando le lanciate e poi correte. La cosa migliore è dalle finestre, sopra i veicoli. Quelli senza armi sul tetto sono i più vulnerabili ma, se si tratta di blindati, scegliete bene dove mirare». Segue illustrazione dei punti deboli di un carro armato.

Nel giro di poco tempo, il thread è diventato un manuale, The Mini-Manual for the Urban Defender, che l’autore ha postato sul suo sito. «È un manuale per i civili, perché il governo ucraino ha mobilizzato i civili, gli ha dato degli AK-47 e gli ha detto “resistete”. Sapevo quale era l’obiettivo dei russi, in quei primi giorni del conflitto: volevano prendere Kyiv e altre aree urbane dell’Ucraina», racconta Spencer, quando lo raggiungiamo al telefono. «I civili venivano mobilitati per combattere come dei militari, dunque ho detto quello che sapevo su come usare il territorio urbano, come sfruttare il vantaggio che esso può offrire anche contro un esercito potente, ma soprattutto come proteggersi mentre si combatte», prosegue l’ex militare.

Immagini prodotte da un’intelligenza artificiale su input testuale (portrait of a man in war with a k-47) a cura di Gola Studio

Due mesi dopo, il Mini-Manual è stato tradotto in ucraino e pubblicato da un editore locale, Nash Format. Nella seconda metà di maggio, quando è uscito il volume, e quando abbiamo chiuso questo pezzo, la situazione sul campo era molto diversa rispetto alle prime settimane di guerra. La battaglia di Kyiv era finita, vinta anche dai civili che combattevano lanciando molotov, e la guerra aveva mutato forma, si era spostata a est, non più uno scontro per la sopravvivenza di una nazione ma un conflitto in alcune delle sue regioni, con esiti incerti e una situazione sul campo in continua evoluzione. Insomma, una guerra diversa, e infatti lo stesso Spencer è un po’ stupito della tempistica della pubblicazione. «Quella che l’Ucraina stava combattendo prima era una total war, una guerra totale per la sopravvivenza, e quella guerra ormai l’ha già vinta, perché continuerà a esistere come nazione. Adesso invece gli ucraini stanno combattendo un’occupazione illegale, e pensavo che il mio aiuto non servisse più, poi però gli ucraini mi hanno contattato per la pubblicazione».

Il termine “guerra totale” non compare nel manuale di Spencer, però l’impressione che ho avuto, leggendolo, è che si rivolga a gente disperata, incazzata, gente che non ha nulla da perdere e che combatte senza sapere combattere, perché l’alternativa è peggio. Combattere col rischio di morire o morire e basta. «La maggior parte del libro è sul come i civili possono proteggersi una volta che decidono di resistere. All’inizio vedevo civili che facevano cose folli, come avvicinarsi in auto a un carro armato e lanciare una molotov, oppure stare scoperti vicino a un checkpoint, per questo mi è venuta l’idea di scrivere il thread che poi è diventato il manuale, per aiutare le persone a non commettere questi errori», mi ha detto. Su questo il suo testo è diretto: «Non puoi combattere se sei morto. Configura l’area urbana in maniera tale da ottenere il massimo della protezione e della sicurezza per combattere il nemico quando arriverà». E ancora: «Non puoi combattere se sei morto. Puoi sopravvivere 3 giorni senza acqua o 3 settimane senza cibo. Filtra e purifica l’acqua. Puoi regolarti guardando la tua urina: se è chiara sei ben idratato».

«I russi non sono lì per uccidere soldati, uccidono i civili, e allora perché i civili non dovrebbero provare a uccidere i soldati russi per salvarsi la vita?»

Poi c’è la naturalezza con la quale si parla di uccidere. Non “colpire”, “neutralizzare” o “eliminare”, termini asettici che, certo, quello significano, però almeno ti fanno il favore di tenersi sul vago, perché noi che viviamo lontano dai conflitti siamo diventati bravi a tenerci sul vago, a rimuovere questa storia della violenza, e non c’è giorno che io non ringrazi Dio d’essere nata in un Paese che la può rimuovere, la violenza, perché non c’è e, quando c’è, non serve. Invece il manuale di Spencer parla proprio di uccidere: non solo di quello, ma anche di quello. La parola “kill” compare venti volte, in frasi come «determina dove vuoi uccidere il nemico» e «sii in grado di uccidere il nemico dal più lontano possibile». Si parla spesso di creare una «kill zone», zone in cui attirare, fermare e uccidere. E ancora: «Bisogna trasformare ogni angolo di strada in un tritacarne dove il nemico teme di perdere la vita».

Gira anche una traduzione italiana. Ho notato che lì la parola uccidere non c’è, o meglio c’è due volte, ma riferita a malattie e infezioni, mentre frasi come «where you want to kill the enemy» diventano «dove vuoi eliminare il nemico» e «kill zone» è tradotta «zona d’ingaggio», e allora mi viene da pensare che forse un fattore culturale c’è. Spencer lo dice candidamente, parlando al telefono, che «la guerra è uccidere, c’è poco da fare». Mi fa notare quello che sanno tutti, specie dopo la strage di Bucha, e cioè che «i russi non sono lì per uccidere soldati, uccidono i civili, e allora perché i civili non dovrebbero provare a uccidere i soldati russi per salvarsi la vita?». Porta Bucha come esempio, non soltanto degli orrori, ma del fatto che restare pacifici non ti salva la vita: «Lì la gente è stata massacrata, hanno sparato a civili mentre andavano in bicicletta, o con le mani legate dietro la schiena». Gli chiedo quello che gli chiedono tutti, se non è un problema mettere online un manuale di questo tipo, un testo che dichiaratamente serve a insegnare ai civili a combattere. «È una domanda che mi pongo spesso io stesso, e forse un domani lo toglierò, ma credo che in questo momento ce ne sia bisogno, che possa salvare vite, che i benefici superino i pericoli», risponde. «In ogni caso, sono stato molto attento a cosa scrivevo. Non è The Anarchist Cookbook, non ti spiego per esempio come mettere assieme esplosivi. È un manuale di difesa urbana, non di attacco urbano».

Immagine prodotta da un’intelligenza artificiale su input testuale (teenager with a rifle) a cura di Gola Studio

Da quando è stata abolita la leva obbligatoria, le autorità italiane vivono con disagio l’idea stessa che un civile possieda qualche forma di addestramento militare. Basta pensare a cosa è successo con i foreign fighter rientrati dalla Siria, quando una legge pensata per i terroristi che andavano a combattere per l’Isis è stata applicata anche a chi si era arruolato nelle milizie curde. La pericolosità sociale, questa una delle spiegazioni, stava nel fatto che quei giovani avevano acquisito sul campo «competenze belliche» e «conoscenze in materia di armi» che avrebbero potuto applicare in patria. «Capisco certe preoccupazioni sul terrorismo interno, però credo che, entro certi limiti l’idea di addestrare i civili, anche solo preventivamente, non sia affatto una cattiva idea», commenta Spencer. Addestrare non significa per forza insegnare a usare le armi: «In caso di un’aggressione, ci sono tante cose che un civile può fare per aiutare i soldati, costruire blocchi, curare i feriti, ma deve sapere farlo. Non sto dicendo che dobbiamo reintrodurre il servizio militare, anche perché gli eserciti di volontari sono di gran lunga migliori, ma che insegnare ai civili come si resiste non sarebbe una cattiva idea. Anche perché per anni alcuni Paesi si sono cullati nell’idea che certe cose non possono più accadere, che succedono ad altri, non a noi, e ora la Russia ha mandato questa certezza in frantumi».

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