La storia di un principe danese medievale, raccontata da un drammaturgo inglese elisabettiano, messa in scena nella Los Angeles opera virtuale creata da uno studio di videogiochi scozzese, recitata nel mezzo della pandemia da un gruppo di sconosciuti. Ma anche un documentario sulla realizzazione di uno spettacolo online in cui persone vere (dis)incarnate nei propri avatar digitali recitano personaggi fittizi che a loro volta recitano delle parti.
«People are violent in Shakespeare»
Grand Theft Hamlet sorprende per la bizzarria del suo titolo e poi per la genialità metanarrativa dell’idea in sé. Ma la vera sorpresa è quanto poco tutto ciò traspaia nel prodotto finale. Forse sorprendere basta ad ottenere premi al SXSW Festival, ai British Independent Film Awards, al Vancouver Film Festival e una menzione nella longlist dei Bafta, a essere proiettato in Imax al BFI London Film Festival e a essere infine distribuito in streaming da Mubi, dove è il film è disponibile dallo scorso 21 febbraio.
Sicuramente sorpreso da questi sviluppi è Sam Crane, l’attore a cui, quando era disoccupato e costretto davanti a uno schermo causa pandemia, venne l’idea, durante un’annoiata sessione di gioco a Grand Theft Auto Online, di ambientare nel videogioco una rappresentazione dell’Amleto. È gennaio 2021 e il Regno Unito è al terzo lockdown. Crane era appena stato scelto come Harry Potter per un’importante produzione londinese quando i teatri sono stati chiusi un’altra volta. Anche la moglie, Pinny Grylls, documentarista, lavorativamente non se la passa meglio. Per distrarsi dalla situazione, Crane si accontenta di una visita al casinò di Los Santos (parodia videoludica di Los Angeles), conclusasi con una sparatoria e fuga dalla polizia (ordinaria amministrazione su GTA). L’inseguimento lo porta a nascondersi al Vinewood Bowl, anfiteatro replica dell’Hollywood Bowl, dove Sam salta sul palco e recita a memoria un passo del Macbeth; poi arriva un altro giocatore e lo uccide.
Ma una lampadina si è accesa: se il Bardo diceva che tutto il mondo è un palcoscenico, perché non il mondo virtuale? Sarebbe un modo per far coincidere la violenza videoludica che ha indignato tanti perbenisti a quella shakespeariana che gli stessi perbenisti tanto apprezzano. Crane sintetizza: «People are violent in Shakespeare. It’s fucking brutal». E poi, se il Bardo è eterno, anche GTA 5 è un evergreen (per un videogioco 12 anni di vita sono un’eternità, e superando ancora i 200 mila giocatori online, può minacciarlo solo l’uscita in autunno del prossimo capitolo della serie). Ma per Crane si tratta soprattutto di una sfida che risveglia la sua passione. Non è che abbia di meglio da fare, comunque.
Tra finzione e realtà
È quindi da questa casualità che nasce l’idea che cambierà le vite di tutti i coinvolti. O meglio, sarebbe così se tutta la scena non fosse evidentemente, appunto, una sceneggiata. Dai dialoghi alla dinamica dell’inseguimento, al fatto stesso che Sam stava registrando la sessione: subito si nota la maggiore stortura del documentario, o meglio del film, dato che per la maggior parte è palesemente recitato.
È stata Grylls che, seguendo l’esempio del compagno, ha spolverato in modo poco ortodosso il proprio mestiere, notando che documentare la gestazione della recita poteva essere interessante quanto il prodotto finale. È lei che, creatasi il suo avatar, riprende la maggior parte dell’azione, oltre alla bellezza del mondo di gioco (in particolare i Non playable characters, ritratti con un’empatia degna dei migliori fotoreporter: un NPC è o non è?). Un incipit scritto è comprensibile, dato che l’idea del documentario è venuta in corso d’opera. Ma niente giustifica le innumerevoli finte discussioni su cui il film fa affidamento per raccontare la sofferenza dell’isolamento, il mondo reale violento come quello originale, l’eterna rilevanza di Shakespeare. A un certo punto la coppia litiga in forma di avatar: «Hai dimenticato il mio compleanno… Questo gioco è diventato tutta la tua vita! E i bambini? E io?». «Hai ragione, spengo il computer e vengo a darti un abbraccio vero». Per Crane dev’essere stato più difficile recitare queste scenette che qualsiasi monologo teatrale.
Falsissimo
È tutto così ostinatamente falso e inefficace che sembra impossibile non sia intenzionale, ma a quale scopo? Non aggiunge un ulteriore livello metanarrativo e inquina quello documentaristico. Non aiuta il ritmo, dato che sono molto più noiosi queste sezioni di quelle caotiche ma autentiche. «Volevamo che le persone si confondessero su cosa fosse reale e cosa no», dice Grylls, ma la distinzione non potrebbe essere più facile. L’insistenza sui contenuti scripted è ancora più frustrante se confrontata alle perle di idiozia proprie dei videogiochi online. Highlight del film è il tunisino ParTeb, che si presenta ai provini per l’Amleto vestito da alieno e, vergognandosi del suo inglese, invece di Shakespeare recita un verso del Corano. Se all’inizio sembra uno dei tanti giocatori venuti solo a far casino, col suo costume e la sua ossessione per le parolacce, è una gioia vederlo poi interessarsi sinceramente agli altri provini e affezionarsi al progetto. Progetto di cui diventa il “security manager”, sorvolando gli attori con un caccia militare e crivellando di colpi chiunque si avvicini.
Evitare qualsiasi artificio sarebbe stata una scelta coraggiosa e rigorosa, qualità non estranee a Grylls: azzeccatissima la sua decisione di girare l’intero film in-game attraverso la fotocamera del cellulare degli avatar, senza scorciatoie e ritocchi. Il lag, i dialoghi gracchianti della chat vocale e le continue notifiche di giocatori che si ammazzano a vicenda o di eventi caotici danno autenticità alle scene (e non si può non sorridere all’annuncio “Sfida a tempo: ruba più veicoli possibile” che riempie lo schermo nel mezzo della tragedia).
Il film si chiude con brevi spezzoni di recita, che lasciano intravedere il miracolosamente calzante assemblage che Grand Theft Hamlet avrebbe potuto — e dovuto — essere. Forse le parti sceneggiata sono state ritenute necessario per legittimare il film e separarlo dai prodotti amatoriali, ma purtroppo il risultato è esattamente l’opposto. Impedendo alla commistione di mondi di parlare per se stessa, la profondità di livelli intra e intertestuali viene riempita dalla superficialità e scontatezza di un generico gameplay su YouTube. Un cortocircuito culturale metanarrativo geniale, un’ode all’arte, alla creatività e alla perseveranza, e un’enorme occasione sprecata.

Leggenda inquietante, maschera funerea, ma anche volto scelto per i manichini su cui esercitarsi a fare la rianimazione cardiopolmonare: una storia che ancora oggi ispira chi scrive, come dimostra La ragazza che annega.