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A Generic Animal piace stonare

Luca Galizia ha pubblicato nel 2024 il suo nuovo disco, Il canto dell’asino. Abbiamo parlato con lui di cos’è l’indie oggi, di animali, timidezze e Sanremo.

di Teresa Bellemo

Dal 2018 Luca Galizia, in arte Generic Animal, sforna un disco ogni due anni. Il canto dell’asino, così si chiama l’ultimo, e restituisce una visione sempre più solida dell’artista. Ci sono sempre gli animali, e questa volta in copertina c’è l’asino, che è immagine e metafora di uno stato d’animo e della vita, ma in tutto il disco si sente soprattutto una maggior consapevolezza, una maturità che non è soltanto artistica ma in qualche modo umana, e forse stavolta per la prima volta le sue due linee del tempo – quella artistica e quella personale – si allineano. «Me ne sono accorto soltanto alla fine. Nel mio caso le cose collidono spesso perché Generic Animal è stata a lungo la mia scialuppa di salvataggio: talvolta mi ha aiutato a scappare o a tenere duro nei momenti di difficoltà». 

Com’è nato Il canto dell’asino?
Ha avuto una gestazione lunga rispetto ad altri dischi che ho fatto. È nato infatti da un lungo periodo di scrittura, di archivio e di rielaborazione di canzoni lasciate decantare dal 2020. Nel frattempo ho fatto uscire anche altri progetti, altri dischi che mi hanno permesso di fare nuove amicizie e collaborazioni e credo si senta tutto questo nel disco. 

Come la collaborazione con Yakamoto Kotzuga, che è produttore del disco insieme a te.
Esatto. All’inizio mi ha accompagnato un po’ in maniera amicale, poi invece è diventato produttore “ufficiale” del disco. È stato un bel palleggio tra di noi che si è calcificato tra le tracce: c’è una sua impronta iniziale, sono andato avanti io e poi è tornato lui.

In molte delle canzoni si percepisce come una consapevolezza del diventare grandi. È voluto?
Sono d’accordo. Forse me ne sono accorto adesso che è uscito il disco. Dopotutto credo che le prese di coscienza arrivino quando ci sono dei risultati, quando si conclude qualcosa. Mentre ci lavoravo ho fatto uscire un Ep, Mondo Rosso, ho fatto concerti, ma sentivo che dovevo chiudere qualcosa, non ero soddisfatto fino in fondo, cosa che è accaduta invece quando ho finito Il canto dell’asino.

Cosa vuol dire quindi diventare grandi secondo te?
Potrei dirti che è riuscire magicamente, da un da un giorno all’altro, a portare il peso di essere stati piccoli. Mi sembra una cosa bella, tutto sommato. 

Il tuo nom de plume e le copertine dei tuoi dischi mostrano un’attrazione per il mondo animale.
Mi piace un sacco la sua purezza gratuita. Gli animali esistono e basta, ma nonostante questo creano un modo di comunicare e di stare in società quasi segreto, diverso da specie a specie, che cambia in base alla geografia. Li vedo vicini alla mia narrativa perché mi riportano alla mia infanzia, o comunque a un mondo infantile ma adulto, a un’ironia. 

Nel romanzo di Orwell La fattoria degli animali l’asino Beniamino è un personaggio estremamente cinico. Tu come lo vedi?
L’asino del mio titolo è arrivato alla fine, ma si è insinuato attraverso la scrittura e le idee di quel periodo e secondo me riassume bene una sorta di insicurezza e di solitudine che c’è dentro il disco. Dopotutto l’asino è un animale super classico della fattoria che non è mai in luce. Porta la soma, va avanti senza accorgersene, ha molte sfaccettature. Mi sembra una buona metafora di quello che per molti è la vita, anche se sarebbe più bello sentirsi un semplice e famoso cavallo. 

Nei tuoi pezzi emerge spesso una “perfezione stonata”, una ricerca della ruvidità, della “sgrazia”, che però poi viene modulata al punto da essere parte integrante di un’opera armonica, tonda.
Mi lusinga essere associato alla parola perfezione. Mi lusinga anche se mi sembra che la stonatura faccia molto più parte del mio alfabeto musicale. Ho un approccio testardo al mio lavoro: faccio, aggiungo, accumulo senza curarmi troppo che le cose all’inizio stiano bene insieme. È continuando a lavorarci che poi riordino le carte, raffino e infine trovo un’armonia che al principio anche a me sembrava impossibile. In questo senso la produzione di Yakamoto ha dato un forte contributo: ha sparpagliato tutti gli elementi, ne ha illuminati alcuni e li ha ordinati secondo una regia molto precisa. 

Sei un artista coerentemente underground, indie, come si diceva una volta, ma hai suonato con artisti come Ketama126, Rkomi, Massimo Pericolo, Mecna, che invece fanno parte di altri mondi, hanno fatto o provato a fare il salto verso il mainstream e la musica più pop. Come nascono le tue collaborazioni e come danno un valore aggiunto al tuo progetto?
Io sono un grande fan della melodia in sé, della musica pop intesa come musica che ti rimane incollata alle orecchie e molte di queste collaborazioni sono nate spesso per caso, grazie a incontri fortuiti. Qualche volta non mi hanno lasciato granché, ma quasi sempre mi hanno permesso di conoscere nuove persone e di prendere strade nuove. È sempre un esperimento, la mia è una curiosità che non so mai dove mi porta. 

Con chi ti sei trovato meglio?
Di Ketama mi è piaciuto il suo modo di fare musica, la sua leggerezza, la sua idea di autoprodursi. Per “Lucciole” abbiamo lavorato in modo sinergico, nonostante fosse un clash tra mondi molto diversi. Non conoscevo per niente la trap e lavorare con lui mi ha sia aperto delle porte che fatto nascere un sacco di curiosità verso un mondo molto meno timido del mio. A livello internazionale ho collaborato con un’artista islandese, Jfdr, e l’anno scorso ho suonato la chitarra per il suo tour europeo. 

Che artisti ti piacciono ultimamente?
Sicuramente Marta del Grandi, con cui tra l’altro ho collaborato nell’ultimo disco. Visconti, che è un progetto post-punk cantautorale; Giungla mi piace molto; e poi Lorenzza che rappa, giovanissima. Non italiani, Nilűfer Yanya, per cui sono andato in fissa, Zsela, Porches, Dijon, Okay Kaya.

Superata la fase un po’ sotterranea, fatta di Myspace, Bandcamp, l’indie italiano è diventato in alcuni casi mainstream con album in classifica, palazzetti pieni, Sanremo. Tu come ti poni rispetto a tutto questo?
Tante persone che conosco sono state a Sanremo e sono stato contento per loro. Il mio ragionamento in questi casi è: “vai e ruba tutto quello che puoi rubare”. È un furto a fin di bene quello a cui penso, l’augurio di non rimanere incastrato in quelle dinamiche che conosciamo della televisione, del diventare macchietta o qualcosa che non sei davvero. Anche io qualche anno fa ho fatto un vago tentativo di andare a Sanremo, ma ho capito che non mi interessava. In realtà Sanremo non è nemmeno il problema, ciò che intacca tantissimo la fluidità delle uscite musicali sono le piattaforme di streaming. Sono loro che decidono a chi dare spazio e, per il mercato italiano, che non è enorme, crea necessariamente un imbuto un po’ rigido.

Mi sembra però che ci sia un lento ritorno a una sorta di underground musicale. Tu come vedi la scena attuale?
C’è un sottobosco molto vivo e vedo un sacco di gente più piccola di me più brava di me a suonare; è più appassionata, ha un’urgenza diversa. E poi ci sono tante piccole etichette che lavorano a un underground proprio interessante. Mi viene in mente il progetto Liquami, una band fatta con altri amici, tutti collaboratori di Generic Animal con cui ho suonato molto durante l’ultimo anno e sono il motivo stesso per cui ho cominciato a fare musica. Trovo sia molto bello questo mondo fatto da tantissime persone che fanno questo perché è l’unica cosa che vogliono fare e non si affidano a nessun concetto di hype, di posa. 

Da città attrattiva del mondo creativo, modello a livello italiano e internazionale, oggi Milano sta scontando un po’ di disillusione. Tu cosa ne pensi, è ancora “il migliore dei mondi possibili”?
Milano in questo momento non è forse un posto particolarmente accogliente, ma si tratta comunque di una narrativa. Il problema è che se continuiamo a parlare di Milano come se fosse una creatura vivente, non risolveremo mai niente. È sempre stato un posto un po’ freddo. Però è anche un posto pieno di gente e questa è una cosa importante. Personalmente sono stato molto fortunato a incontrare le persone che ho incontrato e me le sono tenute molto strette. Mi ha permesso di capire che cosa volevo fare, che musica fare e con chi volevo continuare a farla. Questo forse non è un periodo facile per arrivare a Milano, anche se in realtà ho tanti amici che hanno la mia età, che si sono appena trasferiti e sono felici di averlo fatto. Poi vabbè, ogni tanto sono preso anche io dall’idea “vado a vivere a Bergamo”. 

Una delle canzoni più romantiche de Il canto dell’asino è “Karaoke”, cantata con Marta del Grandi. Qual è la canzone perfetta da cantare al karaoke?
“Non me lo so spiegare” di Tiziano Ferro. Mi era venuto in mente anche un pezzo di Michael Jackson, ma il karaoke è un posto di verità.

La foto in copertina è di Claudia Ferri.