Le ore che precedettero quello storico 29 aprile 1945: il tragitto, la decisione, il simbolismo. Un estratto dal libro Una domenica d’aprile di Giovanni De Luna.
Com’è finita che casa nostra è diventata un archivio – parziale, ma comunque abbastanza esteso – di tutto quello che ha pubblicato Franco Maria Ricci? Com’è successo che ho dovuto disattivare gli alert eBay su “Franco Maria Ricci – Segni uomo”, “Libro delle Visioni” e persino il più rapace, che creai per raccattare disperati, “Franco Maria Ricci – Accetta proposte”? E perché se entro nel mio studio c’è un’enciclopedia illuminista in 18 volumi identica all’originale di Diderot e D’Alembert? Quand’è cominciata questa follia, la mia follia?
Se devo ripensare alla prima volta che ho sentito il nome Franco Maria Ricci le circostanze sono curiose e risalgono a un quarto di secolo fa: sarà stato l’anno scolastico 1999/2000. Maddalena C., a dir poco austera professoressa di Latino e Italiano del mio liceo, mi odiava: donò – chissà perché poi – a un mio compagno di classe un numero di FMR, la rivista, dedicandoglielo pure. «A Lorenzo, grande estimatore delle edizioni FMR». Lì per lì la cosa non mi aveva fatto né caldo né freddo, ma allora per quale maledetto motivo io oggi, a 42 anni, due figli, una vita in sostanza risolta, mi ricordo ancora quel momento? Lei alla cattedra che pronuncia quella frase? Perché mi ricordo quella esatta frase e non ne ricordo migliaia di altre? Non lo so se è iniziato tutto lì, ma capite no, come si dice? «Se sai di essere pazzo, vuol dire che non sei pazzo», insomma, speriamo: perché il dubbio si insinua. È tutto un labirinto. Si esce, non si esce? C’è sempre una sottile speranza.
A casa di FMR, tra vanitas, Bodoni e il sogno del Labirinto
Di certo dieci anni dopo, nel luglio del 2010, conobbi direttamente Franco Maria Ricci. Il Labirinto della Masone sarebbe stato inaugurato nel 2015, ma già del Labirinto si parlava nel 2010. Infatti quell’anno andai a trovarlo a Fontanellato, a casa sua, e ricordo che lì conobbi anche Laura Casalis, la sua compagna, ed Edoardo Pepino, suo nipote e oggi direttore della rinata rivista FMR. Parlammo per una mattina, scattai delle foto, Ricci mi mostrò le sue vanitas, le edizioni di Bodoni, e moltissimo altro che poi sarebbe confluito nel museo del Labirinto, ma al tempo semplicemente arredava casa sua, rendendola più vicina all’idea platonica di wunderkammer che a quella di abitazione. Ero, lo ammetto, rapito. Da Fontanellato tornai a casa a Milano, ubriaco di neanch’io so bene cosa, con questi appunti sulla casa di Ricci: «Il piano superiore è lasciato deliberatamente andare in rovina, ed è avvolto da rampicanti e verde selvatico, il piano terra è ristrutturato e splendido, un museo abitato. A far compagnia alle vanitas non è raro imbattersi in Canova, o Bernini, o Hayez, o Carracci». Ricordo sempre che – ormai più di quindici anni fa – girai da solo nell’immenso parco della casa, dove ancora non c’era niente, solo piante, alberi, bosco: e su una specie di palafitta arredata, con una cucina e dei divani in giro, trovai quello che mi dissero fosse un pittore che dormiva lì, all’aperto. Ma andiamo con ordine.
Nel 2010 ero lì per Maxim, un mensile maschile, dove la notizia del futuro labirinto sarebbe stata poco più che una breve – ricordo l’impaginato: un render dall’alto del Labirinto, e un testo cortissimo, 600, 800 battute al massimo. Non serviva andare a Fontanellato per scriverle quelle 600 o 800 battute, ma c’ero voluto andare lo stesso, perché l’idea di questo Labirinto, messa insieme ai libri di Ricci – che al tempo avevo cominciavo a conoscere – mi faceva in qualche modo intuire che c’era qualcosa di grandioso, una specie di tesoro da scoprire, ma mi sbagliavo della grossa: in questo genere di ossessioni, è il tesoro a scoprire te.
Comunque nel 2010 conosco FMR in persona e da lì comincia tutto il resto. Torno più volte a trovare il Labirinto, anche quando è in costruzione, come nel 2013, e ne scrivo da altre parti, partecipo persino a un compleanno di Franco Maria Ricci, nel 2017 – non che fosse una cosa tra intimi, erano i suoi ottant’anni festeggiati al Teatro Regio di Parma. Scrissi di lui anche quando morì, il 10 settembre del 2020, su Domus, con un incipit su cui sono ancora d’accordo: «Non ci sarà mai più nella nostra epoca qualcosa di simile a Franco Maria Ricci, è impossibile.».
Capite bene che c’è traccia di un’ossessione, chiamiamola estetico-bibliofila, perseguita tra il personale e il professionale. Intravedevo, anzi, sapevo! Sapevo che quel mondo era straordinario, e mi stupiva moltissimo che quasi nessuno se ne accorgesse. Così il passo verso quel mondo, dal raccontarlo al collezionarlo, fu breve. I primi numeri di FMR, la rivista, me li regalò mio padre, vent’anni fa, e da allora ho iniziato a collezionare tutto, o quasi tutto quel che potevo permettermi delle edizioni di Franco Maria Ricci. Uso «permettermi» perché comprare nuovi i libri delle edizioni di FMR non è ragionevole per le mie finanze, mentre quei libri usati, o arrivati dalla classica cantina svuotata, riservano ottime sorprese.
Unicorni e trouvailles
Ricci ha dato vita a molte collane, ma la più nota resta I Segni dell’Uomo: grandi volumi rilegati in seta nera con titoli in oro, caratteri bodoniani, carta pregiata, immagini incollate a mano. La collana si inaugura nel 1966 con Il Disertore e dura fino al 2000 con Storie prodigiose, per un totale di 43 volumi. Ne possiedo 31. Gli altri 12 sono quelli che mi fanno continuare la caccia. Ho un Excel dove annoto anno per anno i prezzi cui li trovo in vendita. So cosa sale e cosa scende. Ho il Codex Seraphinianus di Luigi Serafini – 2 volumi, 1981 – ho Gnoli di Vittorio Sgarbi, ho i Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, che è anche la prima edizione de Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, ho Il congresso del mondo di Borges. Ricordo volentieri poi che non si leggono davvero i libri di Franco Maria Ricci: si possono anche leggere, certo, ma sono più un piacere visivo e tattile, un godimento da esteta più che da lettore. È come avere delle opere d’arte sfogliabili, che quando i bambini sono a letto, ogni tanto, apri con la delicatezza che si riserva a qualcosa di prezioso e antico e guardi, più che leggere. I miei, di unicorni – Ricci chiamava i suoi unicorni le pochissime edizioni di Bodoni che gli mancavano – che ancora non ho catturato hanno titoli del genere Libro delle Visioni, oppure Finimondi o anche più umilmente, Vedute del Regno di Napoli di Hackert. Ci sarà tempo e modo, è il bello delle collezioni: non è finirle. La fine non ci si addice. Il bello è il percorso che fai per finirle e soprattutto per finirle alle tue condizioni. È aspettare, appostarsi, cercare, sperare di trovare, e poi trattare. Siamo sempre là, nel campo dell’attesa del piacere, che, come diceva la scritta in uno dei bagni del mio liceo, dove proprio Maddalena C. mi avrebbe quell’anno bocciato, «È essa stessa il piacere».
Uno dei miei piaceri, mi rendo conto più ancora particolari, in uno scenario che è già abbastanza particolare, sono les trouvailles, scoperte fortunate e spesso fortuite. Ma detto così non è bello come quando te ne capita una. Forse me ne aveva parlato per la prima volta Marcello Mereu, uno che sa riconoscere la meraviglia e di mestiere fa il car detailer: lui si riferiva alle trouvailles come ai reperti di un altro tempo e di altri mondi che gli capitava di trovare nelle automobili su cui lavorava, che so, per esempio un gettone del telefono, uno scontrino sbiadito degli anni ‘90, un biglietto da visita di qualcuno che non c’è più. Le mie trouvailles, sono invece non tanto nei libri, quanto in quello che circondava i libri di Ricci: sono i listini prezzi del 1983, sono i sacchetti con gli indirizzi delle librerie che aveva in tutta Italia ed Europa, sono i cataloghi, sono le buste, le brochure, i dépliant e soprattutto i talloncini «Controllato – Checked – Contrôlé» firmati da chissà chi, dentro ai libri. Oggetti assolutamente inutili per il resto del mondo, ma che a me, ancora più dei libri, raccontano l’atmosfera del tempo, un sapore, la cura infinita, l’attenzione al dettaglio, il tempo svanito.
Storie pazze da collezionisti pazzi
Il collezionismo come il mio poi ti mette nelle condizioni che le amiche e gli amici, sanno che sei pazzo. Così anni fa un’amica mi scrive su Instagram: «Sai che c’è questa signora che conosco che ha in cantina un bancale di roba di FMR?» e ovviamente andiamola a trovare la signora. E conosciamola, e scopriamo che il suo compagno era un musicista jazz funk anni ’70 arrivato dal Libano in Italia, che la figlia è una regista fenomenale, ed esploriamo la cantina, inebriamoci di odore di muffa e illuminiamo con la torcia del cellulare un intero bancale di roba di FMR fermo lì dagli anni ‘90. Perché era lì? Chiedo e scopro: era stato il pagamento di un debito che la signora compagna del musicista funk doveva riscuotere da uno stilista che aveva avuto problemi economici, e che se ben ricordo le doveva dei soldi di un affitto. Invece di pagarla le diede il famoso bancale, dicendole qualcosa come «Questo è il mio tesoro», e quel tesoro lo portai via io – conteneva decine de I Segni dell’Uomo, quasi tutta la collana Antichi Stati e quasi tutti i numeri della rivista FMR degli anni ’80 e ‘90. Ma questa è solo una delle cose che vi potrei raccontare, collezionare qualcosa innesca eventi del genere abbastanza spesso.
Un altro fu una famiglia nobile veneziana, che, pensai ai tempi, neanche nel 2020 aveva più lo spazio o la voglia di tenersi in casa i 18 volumi de l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert e li svendeva. «Meraviglioso atlante delle tecniche artigiane che l’uomo aveva accumulato e perfezionato nel corso dei secoli, l’Encyclopédie è una delle più pregevoli imprese della casa editrice. La sua ristampa ha occupato un intero decennio, gli anni Settanta» dice oggi il sito di FMR, saggiamente sorvolando sul prezzo attuale dell’opera, che penso ammonti a molte migliaia di euro, forse una decina. Ripeto, di storie così ne avrei quante ne volete: sulla Biblioteca Blu come sulla Biblioteca di Babele di Borges – posseggo ovviamente entrambe, prime edizioni – o su quel poco che ho della collana Iconographia, tra cui Androidi – Le meraviglie meccaniche dei celebri Jaquet-Droz, corredato da un vinile dove suonano, registrati nel 1979, degli androidi settecenteschi, o su Morgana, altra collana considerata minore, sbagliando.
Ho idea infine che questo mio febbrile delirio sia venuto a verificarsi in un momento storico perfetto: perfetto per me, ovviamente. I libri di FMR erano status symbol intellettuali da borghesia anni ’70 e ’80, e credo che per ovvie ragioni anagrafiche, molte delle persone che al tempo avevano il potere d’acquisto per comprare i libri di FMR, stiano morendo. Io so, non ho le prove, ma so: so che i figli di questi borghesi intellettuali degli anni ’70 e ’80 non ne abbiano neanche per l’anticamera del cervello di tenersi in casa quei libri e di conseguenza se ne liberino. Non temete, sono qui per voi: liberatevene con me.