Cultura | Cinema
Flow, il capolavoro che non ti aspetti
Il film di Gints Zilbalodis è passato quasi inosservato quando è uscito in Italia a novembre dello scorso anno. Adesso è tornato nelle sale e, soprattutto, è candidato a due premi Oscar.

In un articolo su Time di un po’ di tempo fa, gli ambientalisti Carl Safina e Paul Greenberg proponevano di pensare l’Earth Day con la dignità di una festa sacra. Perché non incorporare al sapere scientifico anche un sapere spirituale, un sistema di credenze di cui la natura è il centro nevralgico, e coltivare una progressiva saggezza sulla vita e l’universo? Nelle culture indigene, ma anche in quelle buddiste, taoiste e in altre tradizioni dell’Asia, la vita e il cosmo sono sempre stati percepiti come in relazione. Tutto è collegato, ed è importante riconoscerlo con gratitudine e gioia. Il ruolo dell’essere umano è di provare a conservare l’equilibrio tra le energie che interagiscono. Solo nelle culture occidentali la natura è percepita come qualcosa di “altro” da noi, solo noi viviamo questa separazione. La conseguenza è che così la natura è un oggetto, qualcosa di cui possiamo disporre, sia in modo positivo che negativo. Una storia che che ci aiuta a orientarci in questa separazione e a è Flow, tenerissimo film animato, appena candidato agli Oscar sia come Miglior film d’animazione che come Miglior film straniero. Alla notizia, il regista Gints Zilbalodis ha festeggiato abbracciando il suo golden retriever e condividendo con l’animale una mela.
Flow è tanto semplice quanto stupefacente: in un mondo in cui la presenza umana sembra appartenere al passato, la Terra è improvvisamente sommersa da una grande inondazione. Un gattino grigio e solitario, Gatto, è costretto ad abbandonare la vita a cui era abituato per tentare di sopravvivere. È inutile arrampicarsi sempre più in alto per sfuggire all’acqua, la sua unica speranza è imbarcarsi su una scialuppa, quasi un relitto, guidata da un mite capibara. Alla ciurma improbabile un po’ alla volta si aggiungono un lemure, una gru e un labrador. Noi seguiamo la barca, Gatto e questa nuova comunità di sopravvissuti che avanzano, affrontando ostacoli e pericoli. Li guardiamo fluire e il mondo si manifesta a noi come a loro, proprio come l’universo narrativo di un videogioco. In effetti Flow è stato integralmente realizzato con Blender, un software open-source (meno sofisticato di software proprietari tipo quelli che usa la Pixar, ma che migliora ogni giorno grazie al contributo degli utenti), ed è stato renderizzato integralmente sul computer del regista.
Sulla pagina Instagram del film, dove Zilbalodis raccoglie molti aneddoti del making of, racconta che ha disegnato le scene direttamente in 3D, esplorando prima con una telecamera virtuale una versione abbozzata del set. Questo lo ha portato a fare scoperte inaspettate e ha aiutato i lunghi piani sequenza e le scene in cui la cinepresa fa movimenti pirotecnici. Io non frequento i videogiochi, ne ho parlato però con un amico game designer, che ha definito il lungometraggio “un’impresa bella audace”. L’eleganza essenziale del design dei personaggi, inseriti in ambienti rigogliosi e abbondanti, accompagna uno studio molto preciso sui movimenti degli animali. Ciò che più commuove è come gli animali si comportano. Perché gli animali si comportano da animali. Quindi, innanzitutto, non parlano. Questo non vuol dire che non comunichino, hanno anzi un linguaggio molto efficace. Tutti gli animali infatti dispongono di sofisticati apparati di comunicazione e non hanno bisogno della parola per comunicare. In Flow, per far esprimere ai protagonisti la propria vita interiore, il sound designer Gurwal Coïc-Gallas è andato a campionare i versi di tutti i gli animali necessari, dal latrato del saggio capibara al canto del lemure dispettoso al miagolio preoccupato del suo stesso gatto. Quando Cane guaisce perché vuole a tutti i costi giocare con Gatto, e questo prima si ritrae diffidente e si gonfia e poi, un po’ alla volta, si ammorbidisce, ho rivissuto i goffi e comici primi approcci del mio cane e del mio gatto – per coincidenza anche loro un labrador e un gattino grigio scuro.
La bellezza del film non è affidata a espedienti come la parola o la canzone, anzi: ci commuoviamo proprio in virtù dell’assenza di questi, grazie all’asciuttezza della verosimiglianza. Il risultato tocca il cuore, senza sfiorare la stucchevolezza stile Disney. Un discorso a parte va fatto per la musica: in un film dove non ci sono dialoghi verbali, molto della storia e del portato emotivo è affidato al suono della natura e alle musiche originali. Le emozioni che provano Gatto, Cane, Uccello, Lemure e Capibara non sono emozioni umanizzate, distorte dal filtro dell’antropomorfismo. Devo ricorrere nuovamente a Carl Safina, l’etologo che da tutta la vita indaga i sentimenti e le culture degli animali. Secondo lui il punto non è umanizzarli, ma dare ai loro sentimenti esattamente la stessa dignità, la stessa poesia, la stessa capacità di esprimerli. Invita a fermarsi a osservare il mondo non umano. Lui lo ha fatto con elefanti, tartarughe, lupi, avvoltoi, balene, orche: le somiglianze che troveremo con noi sono sorprendenti, la vicinanza delle culture, i legami, le relazioni affettive. Apre a queste prospettive soprattutto nel suo libro Alfie & Me. Racconta del rapporto costruito con Alfie, una gufetta selvatica che ha trovato e salvato sul suo portico, che è diventata parte della sua famiglia e poi gli ha aperto le porte della propria. Anche i protagonisti di Flow seguono i loro istinti, le loro abitudini persino, ma si rendono conto ben presto che per sopravvivere devono cambiare e soprattutto collaborare tra loro.
Chi frequenta alcuni ambienti (principalmente di eco-villaggi) forse ha dimestichezza con il concetto di cooperazione interspecie, una pratica in cui gli esseri umani si mettono sullo stesso piano delle altre creature viventi, animali e vegetali, e scelgono di far parte di un sistema orizzontale, reticolato, non gerarchico, in cui tutti concorrono con i propri mezzi allo stesso obiettivo: prosperare sulla Terra, soggetto, non contesto, di questo sistema. È un po’ quello che succede in Flow. Gatto, piccolo solo e tremante, deve affrontare le sue paure. E ha paura di tutto, di tutti, di qualunque cosa sia diverso da lui. Un po’ alla volta impara a lasciare andare, uscire dal suo riparo, accettare di farsi aiutare e in prima persona correre dei rischi per aiutare gli altri. Sempre sotto la guida del capibara-mentore e la protezione di una gru un po’ scorbutica che per proteggere Gatto addirittura si fa ostracizzare dal suo stesso gruppo, rinunciando alla sua comunità di origine.
Flow racconta un mondo colpito da un fatto ambientale, forse un disastro conseguenza del cambiamento climatico. Eppure, nonostante la presenza di un’arca, e a un certo punto anche la comparsa di qualcosa che sembra Dio, il registro non è apocalittico né distopico. C’è un afflato di eternità, ed è molto significativa l’assenza dell’essere umano. Ci sono sì tracce di una presenza passata, città, manufatti, una casa diroccata con un letto ancora fatto, ma l’umanità, semplicemente, non c’è più. Il regista sceglie piuttosto di dare spazio al punto di vista degli innocenti, in una storia che è molto di più di una storia di sopravvivenza. È una storia di cooperazione, di amicizia, di compassione, ma soprattutto è una questione di fiducia: possiamo sopravvivere solo accettando di dover cambiare e affidandoci agli altri. Zilbalodis è molto sobrio e lontano dalla retorica catastrofista e comunque antropocentrica del “meritiamo di estinguerci perché abbiamo distrutto tutto”, ma non fa restare indifferenti il fatto che sceglie di raccontare un pianeta a cui viene data una seconda possibilità. E che ritrova l’equilibrio proprio senza di noi.