Salviamo Sanremo, quest’anno diciamo no al Fantasanremo

È nato come un innocuo giochino di internet ma è diventato una fastidiosa e continua interruzione. Soprattutto, è una violazione di una legge fondamentale: Sanremo è di tutti, non solo di chi sta chronically online.

11 Febbraio 2025

«Montoya por favor!» è l’urlo disperato di Sandra Barneda, conduttrice di La Isla de las Tentaciones, versione iberica del format che conosciamo più o meno tutti, anche contro la nostra volontà, Temptation Island. Se dalle nostre parti Canale 5 ci diletta con citazioni cult come quella di Oronzo che ha «la malattia delle donne» o «il passato rimaniamolo alle spalle» di Giuseppe, in arte per le signorine in chat American Boy, Telecinco non risparmia sulle pruderie: sederi sculacciati, limoni a tutto spiano, rapporti sessuali completi che ci fanno sembrare l’armadio di Ignazio Moser e Cecilia Rodriguez al Grande Fratello VIP 2 roba da scuole medie.

E qui torniamo al disperato concorrente de La Isla de las Tentaciones, protagonista di un frammento televisivo che definire cult è riduttivo. Montoya, fidanzato di Anita, vede la sua amata – già abbondantemente cornuta, chiaro – nel pieno di un amplesso con un tentatore tatuato e dagli slip molto aderenti à la Beckham. Guarda questa scena di adulterio dal set di una spiaggia che ricorda un po’ la Palapa, set di un’altra famosa isola televisiva, quella dei Famosi, un po’ il posto dove si ritrova Jodie Foster nella scena finale di Contact quando è nell’aldilà a conversare con suo padre morto, e a ogni gesto di lussuria che avanza tra i due amanti Montoya si affligge un po’ di più. Si straccia le vesti, urla frasi in spagnolo da studente Erasmus ubriaco a Campo de’ Fiori, corre come un dannato verso qualcosa o qualcuno, mentre la presentatrice cerca di placarlo. Quel video di Las Isla de las Tentaciones, in una delle migliaia di versioni caricate su X, conta circa duecentoventi milioni di visualizzazioni, and counting, come si dice in questi casi. Perché sto parlando di Montoya?

A parte per un’ovvietà, ossia che stavo disperatamente cercando una scusa per farlo, dato che di quel video e di tutti i meme che ne sono derivati nell’orgia cosmopolita internettiana in cui abbiamo visto prendere vita il sogno dell’esperanto grazie al linguaggio universale della sofferenza non ne ho mai abbastanza, c’è una ragione più complessa, ed è legata a un aspetto dell’evento mediatico che da qua a breve inonderà i nostri feed, le nostre televisioni e i nostri cervelli con la cura Ludovico Made in Liguria. Esiste un filo sottile e insidioso che lega Montoya al FantaSanremo, e per quanto pretestuoso questo legame possa sembrare – lo è, ma abbiate pazienza, ci aspettano settimane di Carlo Conti – cavarne fuori una riflessione sul concetto di crossmedialità nel 2025 è l’obiettivo a cui tenterò di arrivare alla fine di questo pezzo. E quindi, proseguiamo.

La funzione Ricordi di Facebook mi suggerisce che esattamente dieci anni fa scrivevo il seguente post: «La simpatia di Carlo Conti, la bellezza di Arisa, la raffinatezza di Emma Marrone». Tralasciando il fatto che erano altri tempi e non c’è bisogno che la gente mi cancelli perché ci penso già io da sola autodenunciando un reato di body-shaming – Emma Marrone peraltro mi sta molto simpatica e amo il suo nuovo look latex-chic – il post incriminato è la traccia archeologica di un processo cominciato poco più di dieci anni fa e che oggi diamo ormai per scontato. È una delle risposte alla grande domanda del contemporaneo, «Perché Sanremo è diventato cool?», se per cool intendiamo trasversale, o in qualche modo generatore di una Fomo che fa sì che tutti, o quasi, se ne accaparrino un pezzetto, anche controvoglia, anche in forma di status di Facebook invecchiato molto male.

La settimana di Sanremo è diventata una sorta di concentrato di tutto ciò che a Milano è trasformabile in week, i brand ci si fiondano sopra come sciacalli sulle carcasse, tutto si declina in ottica sanremese, i podcast, le trasmissioni radio, persino Mediaset comincia a parlare di colui-che-non-deve-essere-nominato, ossia il servizio pubblico. In questa baraonda di comunicazione in cui a spiccare è, come niente altro nella nostra televisione, l’ingaggio del pubblico – Musk si sfregherà le zampette come una mosca nello zucchero guardando i tempi di permanenza degli italiani su X in quella settimana di febbraio – il FantaSanremo si è costruito la sua posizione di privilegio. Un privilegio che si traduce con quella che secondo me possiamo definire una violazione dei principi di gerarchia tra televisione e internet.

Non sono qua per scombinarvi la festa né a fare gatekeeping – anche se, a mio avviso, noi che c’eravamo con Lola Ponce e Giò di Tonno meriteremmo quanto meno una medaglia al petto – perché di quello che dico io il mondo può bellamente fregarsene. Ma teniamo un attimo a fuoco Montoya, la sua corsa, il cielo stellato, la legge morale, Rkomi che si mette a fare le flessioni sul palco e Amadeus che ripete ossessivamente la parola «papalina».

Da quando esiste la possibilità di commentare Sanremo, e da quando questo esperimento di democrazia diretta ha fatto sì che il programma uscisse dalla cornice di mamma Rai per diventare esperienza diffusa e sentimento collettivo, il FantaSanremo si è trasformato da simpatico gioco per addetti ai lavori che si riuniscono come i proverbiali quattro amici al bar di ginopaolina memoria a una vera e propria invasione di campo; in questo caso, il campo sarebbe quello televisivo e l’invasore sarebbero gli inside jokes da internet, trastulli idiosincratici per persone molto online. Dal 2022 in poi, ossia dal governo Amadeus Ter, l’anno in cui il gioco si è trasformato in incubo, tutti i cantanti e i co-conduttori avevano qualcosa di simpatico da fare sul palco per ottenere punti: il velo di Maya è stato squarciato, e ciò che dovrebbe restare su X – le cazzate, per intenderci – ha strabordato sul terreno delle istituzioni, trasformando Pippo Baudo, Peppe Vessicchio e Raffaella Carrà in pupazzetti Funko Pop della kermesse.

Lasciateci giocare con la schedina in mano, diranno gli appassionati, e su questo non posso controbattere. L’unico vero momento di estasi collettiva rimasto in questo Paese, oltre alle rottamazioni delle cartelle esattoriali, è la settimana di Sanremo in cui tutti possiamo prendercela con qualcosa di perfettamente futile e fingere che sia la cosa più importante del mondo – la musichetta, la morte, lo sappiamo. Ma ciò che rimane ancora miracolosamente in piedi, non ancora caduto del tutto sotto le bombe di un futuro fatto di ministeri del Doge e algoritmi intasati da video di gatti eroici e muscolosi che salvano gattine in pericolo generati con l’intelligenza artificiale, è proprio la straordinaria quanto novecentesca verticalità della televisione.

Quel principio per cui non è lei a cercare contenuti in giro, salvo alcuni casi di programmi televisivi basati quasi interamente sugli user-generated content presi dai vari social, ma è la galassia multiforme di internet a rubarne pezzi per rimetterli assieme in questo accrocco postmoderno che è la contemporaneità. Sanremo, così come tutta la televisione generalista, non è un programma per le persone cronicamente online, o meglio, non solo; Sanremo, e da qui l’importanza del termine «generalista», è un programma per tutti, ma soprattutto per chi davanti alla televisione ci sta già piazzato dalle dodici del mattino per guardare Antonella Clerici che assaggia i sughi – Ligabue, questa frecciatina è per te – e che non ha la minima idea del perché Rocco Hunt dovrebbe portarsi una scopa sul palco o di come mai Stash Fiordispino sta provando a baciare in bocca Cristiano Malgioglio (sono bonus d’invenzione, non voglio dare strane idee al popolo del FantaSanremo).

Dunque, tornando all’urlo da cui siamo partiti, alla televisione che produce materiale da Blob e non insegue i trend, che non strizza gli occhiolini ai mematori, non ripete ossessivamente la parola Instagram con Chiara Ferragni sul palco – Ama, quante ne hai combinate? –, non rincorre la viralità come se fosse l’unica ancora di salvezza mentre tutto, da quando si era preannunciata la morte del mezzo, ha contraddetto le profezie nefaste in modi imperscrutabili, io vorrei dire: fate come Montoya. Fate sì che Sanremo faccia Sanremo, senza bisogno di mettere in mezzo le papaline e le flessioni, che tanto, come ci insegna il saggio Montoya, è l’imprevisto il vero bonus della tv.

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