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I fratelli Gallagher si sono esibiti insieme per la prima volta dopo 16 anni In un circolo operaio a Londra.

Evgeny Antufiev

Viaggio nella realtà esoterica dell'artista russo di cui si è da poco inaugurata la prima personale in terra straniera. Fino al 31/7 a Reggio Emilia.

04 Marzo 2013

La mostra del giovane artista russo Evgeny Antufiev negli spazi razionali della maison Max Mara a Reggio Emilia, che dal 2007 ospita la Collezione Maramotti, è una sorta di percorso iniziatico in un labirinto di ossa, legno, cristalli, tessuto, pelle di serpente, fumo e anche un ferro di meteorite. Un labirinto che si rivela in tutte le sue articolazioni sul pavimento dello spazio espositivo, tracciato con sequenze di forme geometriche che si trasformano nel passaggio da una stanza all’altra, quasi a scandire i momenti di un rituale magico.

Antufiev viene da Kyzyk, una città rintanata in una regione remota della Siberia in cui si praticano il Buddismo e lo Sciamanesimo. Una città fuori dal tempo che con le sue tradizioni arcaiche e il suo serbatoio di storie misteriose nutre da sempre il suo immaginario artistico. Eppure, o forse proprio in virtù di questa sua concezione esoterica della realtà, Antufiev è riuscito in pochi anni a diventare il nuovo astro nascente dell’arte contemporanea russa: nel 2009, a soli 23 anni, ha vinto il Premio Kandinsky come “Young Artist. Project of the Year” e l’anno scorso è stato invitato dal New Museum di New York per la collettiva “Ostalgia”, una mappatura della scena artistica germogliata al di là della cortina di ferro dagli anni della Guerra Fredda ad oggi. È lì che Luigi Maramotti si è imbattuto nelle sue sculture totemiche e ha deciso di invitarlo a realizzare la sua prima personale in un’istituzione straniera.

Lo spazio espositivo della Collezione è diviso in cinque stanze, ciascuna afferente ad un tema portante della poetica di Antufiev: il valore simbolico degli oggetti, il coltello come strumento catartico, la permutazione del corpo, l’esplorazione delle possibili connessioni tra materia e forma; e termina con la riproduzione dello studio dell’artista, popolato da una tassonomia di oggetti più o meno kitsch che lui associa alle idee di eternità e infinito. Tutti gli oggetti riflettono i toni del bianco, un colore che evoca i paesaggi innevati della steppa siberiana e al contempo dona a tutto una qualità spettrale ed epifanica, al punto che delle tentacolari bambole-amuleto sembrano mostruose protuberanze materializzatesi magicamente sull’intonaco dei muri.

Questo microcosmo algido e immacolato cui l’artista ha dato forma con le sue mani, il fatto stesso che per accedervi sia necessario indossare dei copriscarpe, induce ad assumere un atteggiamento misto tra l’ossequioso e l’attonito: dopotutto, varcare le sale della mostra è un po’ come entrare in un luogo di culto arredato come il laboratorio di uno scienziato, possiede lo stesso rigore. L’incantesimo, però, si esaurisce alla fine del percorso circolare che conduce nello studio dell’artista, dove c’è una teca in plastica trasparente attraverso la quale, si legge, si può “tentare la fortuna” pescando una busta sigillata. C’è chi rinviene un messaggio per decodificare le criptiche connessioni ideate da Antufiev, chi un disegno; c’è anche chi vince un pezzo di cristallo, souvenir della mostra. I “fortunati”, invece, trovano una carta magnetica con l’immagine serigrafata di un delfino con cui accedere a una stanza chiusa a chiave: pare che dentro ci sia una statua di Michael Jackson.

Questo epilogo con sorpresa potrebbe essere un escamotage per far uscire il visitatore dalla dimensione immersiva del rituale espositivo e indurlo a interrogarsi attivamente sui valori che sottendono l’arte oggi. Infatti, la mostra alla Collezione Maramotti è il risultato di un processo di traduzione in oggetto di una conoscenza del mondo che è oscura perché intima, personale, e come tale combina arbitrariamente sacro e profano, suggestioni pop e simbologie arcaiche. Ma Antufiev non ha aperto le porte del suo immaginario per narcisismo o autocompiacimento, quanto perché ritiene che lo spazio del mito collettivo sia ormai collassato, che insomma non sia più possibile perpetuare, attraverso l’arte, un universo di valori, credenze e ideali condivisi che fungano da fondamenta alla società. Il suo antidoto al relativismo culturale è allora, come afferma lui stesso, costruire un proprio “modello di esistenza protetto”, che a Reggio Emilia è un universo seducente in cui delfini, cristalli e meteoriti sono emblemi di un modo di percepire la realtà “più che umano”.

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