Cultura | Cinema
Emilia Pérez non cambierà il mondo e neanche il cinema
Il film di Jacques Audiard avrebbe potuto essere uno dei più strani e audaci mai fatti, invece è un tripudio di cliché.
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Ci sono tanti modi giusti di iniziare un film ambientato in Messico, mentre ce n’è soltanto uno sbagliato: un’inquadratura su un gruppo di mariachi. Emilia Pérez inizia proprio così: nel modo più pigro, con il simbolo più scontato. Una pigrizia, una scontatezza alla quale Jacques Audiard si attiene per tutto il resto del film. Emilia Pérez funziona tutto così, come la sua prima scena: per chi guarda non c’è modo di non pensare quello che il film sta suggerendo (costringendo, si potrebbe dire) di pensare. Non soltanto perché Audiard maneggia i simboli con la raffinatezza di chi, appunto, pensa al Messico e pensa ai mariachi, quindi mostra i mariachi per mostrare il Messico (sostituendo mariachi con narcos o desaparecidos si capisce perché il film è così detestato in Messico e in tutto il Sud America). Ma anche perché è un film di ridondanze. Quello che dobbiamo pensare ce lo dice tre volte almeno: prima con le immagini, poi a parole, infine in musica, in modo che non resti dubbio alcuno. E in effetti, è così che si svolge anche la scena iniziale: dopo l’inquadratura sui mariachi, in sovrimpressione compare anche la scritta “Città del Messico”, in sottofondo si intuisce una melodia mariachi. Casomai a qualcuno fosse rimasto il dubbio: Emilia Pérez è ambientato in Messico (ma girato tutto in studio a Parigi, altra cosa che ha fatto imbestialire i messicani).
Emilia Pérez non ha dubbi e non vuole che li abbia nemmeno il pubblico. È per questo che i protagonisti attraversano le vicende del film con la prescia di chi ha già chiaro tutto, ha già deciso tutto. Rita Moro Castro (Zoe Saldana) è un’avvocata di talento, frustrata e disillusa che vuole altro dalla vita. Lo sappiamo perché lo vediamo, che brutta vita fa. Poi arriva anche lei a dirlo esplicitamente, alla fine ci canta pure una canzone a riguardo. Manitas Del Monte (Karla Sofía Gascón) è un signore della droga ricco, potente e violento che vuole un’altra vita: da che ha memoria soffre di disforia di genere, la terapia ormonale l’ha fatta, gli manca “soltanto” la chirurgia di riassegnazione del genere. Lo sappiamo perché in una scena si sbottona la camicia per mostrare il seno, poi ce lo dice anche esplicitamente, alla fine pure lui a riguardo ci canta non una ma due canzoni. Manitas decide che Rita è la persona che lo aiuterà a ottenere «la vita che la vita stessa mi ha negato», quella di Emilia Pérez. Rita accetta l’offerta, generosissima e minacciosa, di Manitas. Non ha alternative, Rita, perché, come le spiega Manitas, «ascoltare è accettare».
Di scene manipolatorie (ma nemmeno: la manipolazione è sottile, qui invece siamo alla volgare esposizione) come queste Emilia Pérez è pieno, scene in cui le cose vengono dette, non mostrate, figuriamoci dimostrate. Il film è fatto di scene come queste. Un altro esempio: quando Manitas diventa Emilia, da villain diventa eroina – ammirevole la spavalderia con la quale Audiard impiega tutti i cliché possibili e immaginabili sulla transizione – prima ancora di compiere un atto di qualsiasi tipo, tanto meno uno eroico. Diventa eroina perché Rita prima ci dice, poi (ovviamente) ci canta che «cambiare corpo è cambiare la società, cambiare la società è cambiare il mondo». E tant’è, tocca crederci per forza perché ormai è troppo tardi, la canzone l’abbiamo ascoltata. È questo il patto al quale devono sottostare anche gli spettatori di Emilia Pérez: loro sono Rita, Audiard è Manitas, lui parla, loro ascoltano, «ascoltare è accettare». Senza porsi dubbi né fare domande. Le cose sono quelle che vengono dette e sono come vengono dette. Né più né meno. A guardare questo film ci si sente come la Jessi di Selena Gomez, moglie di Manitas, madre dei suoi due figli e vero surrogato del pubblico: vattene in Svizzera, tornatene in Messico, ama papi Manitas, ringrazia la zia Emilia, canta e balla, fallo e taci.
Audiard ha detto che il suo film è cambiamento come è cambiamento la vita della sua protagonista. È un peccato che la regola «ascoltare è accettare» non valga fuori dal mondo di Emilia Pérez: valesse, si potrebbe (si dovrebbe) dargli ragione. Il film però non è nessuna delle cose che Audiard sostiene sia: non è un thriller, non è una telenovela, non è un melodramma, non è un film politico, non è soprattutto un character study, perché tutti questi generi vivono di una tensione che in Emilia Pérez non esiste (almeno fino all’insensato finale). Questo Audiard lo sa, ne sono certo. In tutte le interviste ha raccontato che Emilia Pérez nasce da un personaggio appena accennato in un capitolo del romanzo Écoute di Boris Razon, cresce come protagonista di un’opera lirica (di questa prima stesura ha detto che è rimasto un libretto vero e proprio, lungo trenta pagine) e solo alla fine diventa personaggio di un film. Ha detto, Audiard, che tracce di questo processo si vedono ancora nelle protagoniste di Emilia Pérez: archetipi, così le ha definite lui stesso. Strumenti, quindi, utili per uno scopo. «Monodimensionali», l’aggettivo lo ha usato Audiard stesso. Non che ci sia nulla di male, in questo. O almeno: non ce n’è nella misura in cui il fine giustifica i mezzi. Purtroppo il fine di Audiard, con Emilia Pérez, è veicolare il più trito e adolescenziale dei messaggi: amore per se stessi e per il prossimo, pace interiore e nel creato, sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. «Quiero quererme a mí misma / Querer, sí, mi vida / Querer, sí, lo que siento / Quiero quererme a mí misma / Quererme así, toda / Quererme así como soy», canta Jessi in “Mi camino”. È il “sessestismo” di cui scriveva Guia Soncini già dieci anni fa. Ci si vincono le Palme d’oro, i Golden Globe, forse gli Oscar, adesso.
Ma le canzoni di Emilia Pérez, almeno quelle, sono belle? Brutte non sono (soprattutto “El Mal”, grazie allo splendore di Saldana) ma non sono nemmeno tutte canzoni. Tanti sono dialoghi cantati, una via di mezzo che fa venire il dubbio sull’interesse di Audiard per la forma che ha scelto di dare al film. Lui non fa niente per fugare questi dubbi: ha detto che i musical nemmeno gli piacciono granché. Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, Cabaret di Bob Fosse, Golden Eighties di Chantal Akerman e Hair di Miloš Forman, la sua formazione in fatto di musical è tutta qui. Sarà per questo che, guardando Emilia Pérez, viene da chiedersi che film ci siamo persi per colpa del capriccio di un regista a cui è piaciuto cimentarsi con un genere diverso, uno che conosce poco e maneggia peggio. Potenzialmente, Emilia Pérez era un film estremamente audardiano, adattissimo alla sua poetica: pochi registi hanno saputo rispondere con la sua stessa brillantezza alla domanda «a quante vite abbiamo diritto?» (tutta la sua filmografia è un tentativo di trovare una risposta a questa domanda, ha detto Audiard); pochissimi hanno il suo orecchio per le lingue straniere – non parla una parola di spagnolo – di cui ha dimostrato di sapere fare eccellente uso narrativo in film come Il profeta (l’arabo), Dheepan (il tamil), I fratelli Sisters (l’inglese).
Il peccato mortale di Emilia Pérez sta proprio qui: nella promessa di una stranezza e di una grandezza che non viene mai mantenuta ma sempre annunciata. L’audacia che il film mostra in premessa resta in premessa, senza mai manifestarsi nello svolgimento (ma ripetendosi continuamente a chiacchiere: «Emilia, tu stai cambiando il mondo», ci viene detto a un certo punto di un’Emilia che ha appena compiuto il rivoluzionario atto di fondare un’associazione). Emilia Pérez poteva essere uno dei film più strani mai visti e invece non lo è, né nelle immagini né nelle parole, né nelle musiche né nei temi.