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Elogio dell’apparenza

Barbara Carnevali, filosofa italiana emigrata in Francia, ha dedicato un saggio alle apparenze sociali: da rivalutare, sono una forma di seduzione.

19 Novembre 2012

“Il segreto del mio prestigio è un segreto”, diceva Salvator Dali. Ma la cosa non vale solo per lui: il mistero racchiuso nell’aura seducente che ammanta alcune figure, oggetti, stili di vita, e che genera ammirazione e imitazione, non si giustifica con il soggiogamento derivante dalla ricchezza, dal talento o dalla celebrità.
Etimologicamente associato alla magia e all’artificio, il prestigio è un “fenomeno dell’illusio”, un irresistibile sortilegio dell’apparenza, un’epifania della distinzione. Di questo carisma ineffabile, in grado di esercitare una “coercizione a distanza”, si occupa Barbara Carnevali, ricercatrice all’Institut d’ Études Avancées di Parigi in Le apparenze sociali (Il Mulino), saggio che primariamente argomenta la legittimità di analizzare filosoficamente un ambito generalmente ritenuto marginale, superficiale e inautentico.
Da un lato, infatti, la vulgata ritiene l’estetica sociale come l’ambito del capriccio di chi, concentrandosi sullo stile della propria esistenza, si illude di viverla con maggiore intensità. Dall’altro la si deplora come sintomo di un’alienazione connaturata all’impostazione capitalistica: che, superata il classico dualismo tra valore d’uso e di scambio, considera nel rapporto con la merce un terzo elemento, l’Inszenierungswert, il valore “di rappresentanza”, in un processo in cui anche l’immagine sociale si fa bene da commerciare e sfruttare. Ne consegue, in entrambi i casi, l’idea della dimensione estetica della vita come, scrive Carnevali, una “sorta di seconda realtà nella realtà, una cortina di apparenze seducenti e ipnotiche che finiscono per interporsi nel rapporto tra il soggetto e il mondo reale, come lo schermo di un cinema, provocando forme di idolatria”.

A proposito di venerazione per l’immagine, vengono in mente le folle che aspirano ad andare in tv. Ma essere famosi equivale ad avere prestigio? Che differenza c’è tra le due cose?
Fama e prestigio sono due forme diverse di immagine sociale, ugualmente capaci di influenzare. Il prestigio è un’illustrazione di status e la sua percettibilità è verticale e qualitativa: serve cioè a situare l’individuo all’interno di una classe e la sua classe al vertice della gerarchia.
Inoltre, il suo contenuto è formale: riguarda il modo in cui si appare e rivela l’impronta dello stile di vita stile superiore. E per questo basta il riconoscimento di pochi intenditori interni a una cerchia ristretta, che sanno riconoscere il codice. La fama invece è individuale: rappresenta non il rango, ma il nome proprio di chi la incarna. La sua percettibilità è orizzontale e quantitativa: la sua realtà dipende non dalla competenza, ma dal numero delle persone che la attestano. Per questo è qualitativamente neutra e virtualmente bipolare: non conta la differenza tra un santo o un serial killer, perché, come nei reality show, è più famoso semplicemente chi conquista più pubblico.
Ma fama e prestigio possono anche sovrapporsi quando l’individuo famoso, in virtù del suo successo, acquista uno status superiore: lo star system è considerato da molti sociologi una nuova forma di élite e figure come Reagan, Grace Kelly o Carla Bruni emblematiche di questo passaggio. Ovviamente, l’arrivo di questi nuovi nobili ai vertici della piramide sociale trasforma i codici del prestigio e può anche involgarirlo.

Ma se il prestigio incarna una superiorità qualitativa, ne emerge un modello unico e interclassista? Esiste un prestigio borghese e uno proletario?
Ogni élite ha suoi specifici standard di prestigio. Non necessariamente, dunque, esso coincide con la massima sofisticazione e stilizzazione formale. Vi sono élite che hanno esasperato il lusso e il consumo ostentato, come la corte di Versailles, e altre che hanno creato un codice del dettaglio invisibile, del “less is more”. Per quanto variamente espresso, il prestigio, però, si connota per la sua presenza all’interno di una élite, ovvero di una minoranza dalla specifica superiorità di posizione.

Quando pensiamo a qualcosa di “esclusivo,” solitamente lo associamo a un costo elevato, accessibile agli happy few. Che rapporto corre tra ricchezza e prestigio?
Secondo Kojève, il signore è colui che, per vanità, nega il valore dell’utilità economica in nome del prestigio, valore più alto che dipende dalla stima, dal riconoscimento dell’altro. E’ una giustificazione dell’ethos aristocratico, che da sempre attribuisce più importanza all’onore e al prestigio che al denaro, al punto da poter sacrificare il secondo ai primi. Va detto però che questo ethos ha spesso come condizione di possibilità proprio la sicurezza economica. Solo chi è già ricco può permettersi di disprezzare pubblicamente il denaro.

E i ricchi e famosi che professano una vita frugale? Si dà una distinzione anche verso il basso, uno snobismo dell’antisnobismo, per esempio nella finta semplicità di tanti potenti?
Sì. Proust parlava a della «snobismo evangelico» della principessa di Parma, talmente distinta da cancellare ogni segno apparente della propria superiorità. Ovviamente, il risultato finale di questo abbassamento è ascensionale: come racconta con grande ironia Proust , l’umiltà esibita serve a consolidare il prestigio sociale, rendendolo socialmente più accettabile.

Un tempo il prestigio era avere ritratti degli antenati in casa, ora è avere quadri di artisti famosi. Che rapporto c’è tra il prestigio rappresentato dagli status symbol e l’evoluzione del gusto? Esistono beni il cui prestigio non è soggetto alle mode?
I simboli di status sono relativi alla cultura di cui fanno parte e il loro significato può cambiare. Per fare un esempio: l’amore per il calcio è considerato volgare in Inghilterra, mentre per alcuni intellettuali italiani è un segno di distinzione snobistica.
Ciononostante, esistono anche simboli di prestigio, come le pietre preziose, che sembrano scavalcare questa valutazione per alcune qualità oggettive. I gioielli, come le vesti ampie, o in natura la criniera di un leone, sembrano comunicare al di là dei contesti. Sono strumenti di conquista simbolica dello spazio, armi essenziali affinché si eserciti l’ammaliante attrazione del prestigio, che poi è la capacità di far credere, di suscitare illusioni efficaci, di farsi desiderare.

(Dal 30 novembre al 2 dicembre un weekend ci panel, discussioni e concerti: Studio in Triennale, alla Triennale di Milano. Qui tutte le informazioni del caso. Vi aspettiamo.)

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