La sapete quella delle elezioni in Regno Unito e il cinema? No, non è un riferimento al fatto che si voti domani, giovedì 4 luglio ovverosia Independence Day, data che alimenta suggestioni come fossimo davvero di fronte a un’invasione aliena. Il gancio cinefilo da usare per capire la situazione politica britannica è diverso. Cosa si fa questa sera? Facendo parte di un democratico gruppo di sette amici si decide di porre la questione al voto. In tre vogliono tornare al solito bar, gli altri quattro spingono per il cinema e quindi multisala sia. Dalle parti della cassa, però, avviene uno stallo messicano sul film da scegliere e nasce una caotica discussione che si protrae inconcludente oltre l’orario di inizio dell’ultimo spettacolo, quando è troppo tardi pure per ricercare fortuna al pub. Sono ora fermi nel parcheggio, il litigio si è allargato ai passanti e dall’incomunicabilità, assenza di un piano fattibile e dalla creazione di fazioni si è arrivati ai cassonetti bruciati e alle macchine coi vetri frantumati. Una serata di merda, insomma.
La serata di merda del Regno Unito dura dal giugno 2016, trionfo di quella B-word che oggi sembra essere incredibilmente vietato pronunciare, e tocca adeguarsi al fatto che siamo passati dal “don’t mention the war” satirizzato 50 anni fa al “don’t mention the referendum“. Lungo questi anni di piano inclinato verso gli abissi il Paese ha perso molto, dalla serietà e l’aplomb tanto tromboni ma parecchio rassicuranti fino all’economia da potenza globale e persino l’inimitabile Regina, mutando freneticamente in un dismesso carro allegorico che più volte ha stimolato paragoni con la cialtronaggine di noi italiani. Sia inteso, il Regno Unito è sempre stato una fabbrica di eccentricità (gli streakers! i tabloid! i rubinetti separati d’acqua solo bollente o gelida! Paul Gascoigne! i Windsor e i loro scandali e i loro ritratti!) ed effettivamente questo decennio ha prodotto un rosario lunghissimo di vicende politiche assurde e molta carne da cannone per reality anche internazionali, ma il titolo di circensi massimi richiede una professionalità e un’indole che gli inglesi non potranno mai sottrarci.
Dunque, queste elezioni. 650 corse individuali nei collegi, chi ottiene anche solo un voto in più si prende il seggio e gli altri candidati nulla. Il modello Westminster ha creato un bipolarismo ferreo ed ha comportato storicamente un leggero vantaggio per una delle macchine accumula-voti più efficaci dell’Occidente (solo due leader del Labour hanno vinto un’elezione negli ultimi 74 anni) e anche il bonus di escludere i più folli dal Parlamento. Ecco, tutto questo ora non esiste più. È successo che alla fine una cosa decente la Parola-con-la-B l’ha causata, sprigionando energie che i matti hanno usato per prendersi con convinzione il Conservative Party.
Oltre al disamoramento generale dopo 14 anni dello stesso partito al governo, innumerevoli scandali (eccezionale l’ultimo sul flusso di scommesse sulla data elettorale nei giorni precedenti la scelta del premier Rishi Sunak) e lo stato decrepito del Paese soprattutto nelle sue espressioni pubbliche, le divisioni nel campo conservatore-reazionario sono il motivo per cui queste elezioni sono attese: non per il risultato che sembra scontato a favore del Labour ma per le proporzioni della sconfitta Tory che si annunciano epocali. A oggi, la scommessa principale accettata dai bookmaker riguarda una sorta di Quota 100 deputati eletti nelle fila dei Tories.
Eppure, cinque anni fa appena c’era stato Boris Johnson, che insistendo oltre che sulle carnevalate anche sulla necessità del levelling-up (il riequilibrio economico tra la capitale e le regioni più povere, un divario diventato ancora più grande quando il sindaco di Londra era un certo Boris Johnson) ottenne nel dicembre 2019 una delle maggioranze più ampie del dopoguerra e presagi di tre o quattro legislature consecutive a Downing Street. È poi finita in un baleno nell’unico modo in cui poteva finire, con uno scandalo, e anzi la sorpresa fu che il jet-setter Johnson non fosse esattamente l’anima di quelle feste governative organizzate in epoca di lockdown.
Al di là di tutto, il passaggio della cometa Boris ha portato anche nell’ingessato Regno Unito l’accelerazione verso la politica delle personalità, delle performance, dei selfie in giro per comizi quando ti va bene e dei meme a sfotterti quando marca male. Nonostante la relativa giovane età, Sunak non riesce a far presa nemmeno qui, col suo tratto di personalità da tech bro ossessivo che ti tartassa di post motivazionali su LinkedIn, il suo elettorato che non dimentica che fu uno dei ministri più veloci a sganciarsi da Johnson, l’onta del voto per la leadership del partito perso nientemeno che contro Liz Truss (e quindi per transizione anche contro il cespo di lattuga), la Corte Suprema che gli boccia ripetutamente il progetto di deportazione di massa degli immigrati in Rwanda. E poi le innumerevoli ironie sul fatto che la data elettorale di luglio combaci molto con il calendario scolastico della California, possibile approdo post-politico di un politico che non ha nulla del politico ma ci si è trovato. Non sembra neanche avere uno staff di persone che gli vuole bene: al secondo giorno di visite elettorali e coi consensi in picchiata l’hanno mandato in Irlanda del Nord laddove venne costruito il Titanic, e giù analogie e risate.
A complicare una situazione già tremenda è tornato poi sulla scena uno che invece il fiuto politico ce l’ha: Nigel Farage, il guru antieuropeista reduce dalla partecipazione ultramilionaria all’Isola dei Famosi inglese in cui ha esposto umanità da commoner e anche dell’altro durante diverse docce aux naturiste. Farage dovrebbe riuscire all’ottavo tentativo a entrare a Westminster per la prima volta (circoscrizione di Clacton, Essex marittimo molto pro-B), avendo spodestato il milionario Richard Tice quale avatar principale di Reform UK, una sorta di Ukip e Brexit Party riaggiornati al tempo delle culture wars che i sondaggi danno attorno al 15 per cento.
Il fatto che non abbia parlato sin qui di Sir Keir Starmer, Primo ministro in pectore, dice molto della sua personalità schiva e di quanto poco si sia esposto sia personalmente che ideologicamente. Avvocato in tema di diritti civili, di indole moderata, londinese dalla famiglia discretamente working class (“my dad was a toolmaker” è l’ultimo mantra dell’ultradestra per sfotterlo come se le umili origini si possano rivendicare solo tramite rutti), Starmer è quello che una volta si sarebbe chiamato public servant e nonostante sia stato ministro del governo ombra di Jeremy Corbyn per sorvegliare l’attuazione della B. neanche lui ne parla mai, forse per non portare all’attenzione la passata vicinanza all’ex leader poi ripudiato. Consultando i suoi social si nota una certa fighettizzazione recente, da occasionale dei concerti di Taylor Swift, e sempre più colori bianchi alternati alle Union Jack che ha voluto far rientrare nel pantheon laburista. Negli ultimi dibattiti Sir Keir sembra essersi scrollato un po’ di dosso la natura robotica che gli viene contestata, in parallelo alle critiche ricevute dal ct della nazionale inglese Gareth Southgate il cui profilo è spesso accomunato a quello di Starmer sperando in una sorta di boring man summer che possa vederli trionfare assieme. Per festeggiare, nel caso, appuntamento al suo pub preferito, il Pineapple a Kentish Town, notevole e molto popolare.
L’aria in realtà non sembra granché febbrile, nemmeno nella Londra epicentro di ogni cosa: nonostante sia alle porte un risultato inedito nella storia politica britannica il coinvolgimento generale pare ai minimi termini. Sarà la convocazione improvvisa delle elezioni e le sole cinque settimane di campagna elettorale, sarà il sentore di partita chiusa o il soffio fortissimo dei venti di guerra, sarà il sandwich scaccia-attenzioni tra piani vacanza, gli Europei e un’edizione di Glastonbury tristemente salutista, ma gli unici segnali del periodo elettorale sono i volantini dei candidati abbandonati sul marciapiede, l’onnipresenza sui media della parola “manifesto” e delle difficoltà nel pronunciarla, infine le cartoline che vengono spedite a casa agli aventi diritto di voto per rivelare dove si trova il loro seggio. Non sembra neanche che per giovedì siano in programma le consuete dirette notturne nei locali pubblici per seguire le chiamate dei 650 seggi. Questo fondale di apatia si lega a un certo sentore, presentissimo da dopo la pandemia, di decadenza londinese, invero affascinante e anche coi suoi lati più vivibili almeno fino a quando non arriva il giorno del mese in cui pagare l’affitto o quello settimanale della spesa. Chi arriverà a salvarci, allora?