Dopo 26 anni esce di prigione il re degli impostori diventato personaggio di un famoso libro di Emmanuel Carrère.
È il 6 marzo 2025 e un uomo pubblica un video su Instagram. Davanti alla videocamera, felice come un adolescente, mostra la scatola che ha appena aperto, un pacco di libri che prende a passarsi tra le mani e a presentare ai follower, libri che non sono altro che copie del medesimo volume. «Ciao» esordisce subito, chiaramente emozionato, «dopo più di tre anni di molto lavoro, di molta sofferenza letteraria ed extraletteraria, alla fine è arrivato. Dal 26 marzo sarà nelle librerie di tutta la Spagna. Spero che vi piaccia, o meglio spero che vi disgusti abbastanza così da rimanerne un po’ scossi». Quell’uomo si chiama Luisgé Martín; mentre quel libro, il suo libro, s’intitola El odio, romanzo true crime che avrebbe dovuto pubblicare Anagrama, storica casa editrice spagnola con sede a Barcellona. Avrebbe, appunto, se solo El odio non fosse stato fagocitato dalle polemiche, se non fosse finito al centro di una faida destinata a scuotere l’editoria spagnola.
José Bretón, infanticida
El odio segue da vicino la storia di un celebre assassino spagnolo: José Bretón, colpevole di aver ucciso nel 2011 entrambi i figli, di due e sei anni, dopo che la moglie, Ruth Ortiz, gli aveva detto di volersi separare da lui. Uno dei casi più cruenti di violenza vicaria, com’è stata definita, orchestrata orribilmente da Bretón per vendicarsi della propria partner. Medea in versione maschile, insomma. L’infanticida per antonomasia, che pose barbaramente fine al sangue del suo sangue, eccola che rivive più di duemila anni dopo in un Paese, la Spagna, che non ha ancora perdonato quel gesto. Come non ha perdonato a Luisgé Martín di aver anche solo pensato di scrivere El odio: dedicato non alle vittime bensì all’omicida, che l’autore ha avuto modo di conoscere tramite svariate conversazioni telefoniche, una sessantina di lettere e un incontro ravvicinato nel carcere di massima sicurezza di Herrera de la Mancha, dove Bretón è attualmente incarcerato.
In quel bunker si è blindato però anche Luisgé Martín, scendendo nelle viscere della devianza umana per restituirla al pubblico in tutta la sua contraddizione, nella sua oscurità e nella sua indecenza, nella sua efferatezza, soprattutto nella sua incomprensibilità: questo l’obiettivo di El odio, che non è piaciuto affatto a Ruth Ortiz, ora impegnata a mettere a ferro e fuoco la Spagna per far sì che questo libro non veda la luce.
Ma andiamo con ordine. Ad essere coinvolta è in primis la procura di Cordova, che si schiera a favore dell’ex compagna di Bretón; poi un tribunale di Barcellona, che invece dà ragione a Luisgé Martín; infine e nuovamente la procura di Cordova, che minaccia di fare ricorso per impedire la pubblicazione dell’opera. E nel mezzo, non dimentichiamolo, c’è Anagrama, la cui posizione all’inizio è inamovibile, risoluta com’è a portare avanti il progetto e a non cedere nonostante le pressioni. Nel comunicato stampa ufficiale del 21 marzo leggiamo infatti che El odio «si allontana e rifiuta ogni altra intenzione se non quella di presentare al lettore la malvagità dell’assassino senza giustificare o scusare il crimine, ma anzi, al contrario, mostrandone l’orrore». E ancora: «Riaffermiamo il nostro impegno nei confronti della responsabilità editoriale e della libertà di espressione, consapevoli che le due cose devono coesistere. In questo senso, comprendiamo che la letteratura può e deve affrontare questi argomenti senza tralasciare la complessità che essi rappresentano».
Un endorsement bell’e buono, un peana dopo il quale moltissimi, me compresa, hanno ampiamente scommesso su quest’ormai famigerato libro, che alla fine non è uscito, data la decisione definitiva di Anagrama, capace di creare stupore almeno quanto la tifoseria nata sui social, dove quando va bene Luisgé Martín è denigrato, sottoposto a una gogna di improperi insieme a tanto tanto altro, inclusa la richiesta incessante di boicottare la stessa Anagrama.

Il male
A leggere i commenti, che sfiorano puntualmente il delirio, viene da chiedersi se si è perduto il concetto di creatività. Viene da chiedersi capiamo ancora che la coscienza inventiva, qui nella fattispecie narrativa, è tutt’una con quella traumatica, personale e pubblica, e talvolta incrocia l’orrore, anche quello più abominevole: da che mondo è mondo l’insegue, lo sviscera e lo descrive, e non perché voglia scusarlo o esaltarlo, piuttosto decifrarlo, studiarlo e legittimamente comprenderlo, perfino redimerlo. O per dirla con George Bataille: «Se la letteratura si allontana dal male diventa subito noiosa», variazione sul tema di una massima di Flannery O’Connor, fra le maggiori scrittrici di tutti i tempi, la quale riteneva che una storia senza impedimenti, più precisamente senza peccati, nel suo vocabolario, non fosse una buona storia: due avvertenze memorabili, che hanno letteralmente fatto storia e ci ricordano la regola d’oro del lavoro autoriale: il diritto e forse pure il dovere di guardare l’inguardabile, il coraggio di maneggiare ciò che più ferisce, noi e gli altri, la responsabilità verso l’inesprimibile, almeno all’apparenza, almeno finché qualcuno non inizia a dialogarci: com’è successo a Luisgé Martín.
Questo discorso riguarda ad ogni modo tanti altri campi, dalla musica alle arti visuali e performative. Ma riguarda soprattutto le produzioni televisive e cinematografiche, che stanno investendo parecchio in contenuti true crime, rispetto ai quali assistiamo di norma a ovazioni. Certo ci sono state anche le critiche, e non poche. Ma mai queste critiche hanno portato a epiloghi come quello toccato a El odio.
L’ipocrisia
Sembra quindi che il crimine veicolato dallo schermo diventi più accettabile, guadagnando una patente di dignità espressiva difficile da schiodare. Viceversa, se il mezzo di comunicazione è un libro, se il racconto avviene tramite quel vecchissimo strumento fatto di carta, allora le cose si complicano. Anche osservandolo da quest’angolatura, il caso di Luisgé Martín è emblematico, se pensiamo poi che Anagrama è l’editore spagnolo de L’avversario di Emmanuel Carrère, romanzo-verità incentrato sul serial killer francese Jean-Claude Romand; e ugualmente di A sangue freddo di Truman Capote, non-fiction novel fondatrice dello stesso genere true crime, basata sul quadruplice omicidio della famiglia Clutter, a Holcomb, nel Midwest degli Stati Uniti.
Siamo dunque di fronte a un’incongruenza vistosa, soprattutto siamo di fronte a un’istituzione che a un certo punto si è trovata a un bivio: una tragedia da un lato e uno scrittore dall’altro, una sopravvissuta che chiede silenzio e un uomo che invece intende usare la voce, al momento ammutolita. Ma una simile condanna è ammissibile, nella letteratura come in altri linguaggi artistici? Dobbiamo chiedercelo. O l’ispirazione è diventata a un tratto raccomandabile? C’è forse una decenza preventiva? C’è una fantasia da educare? C’è una censura etica da considerare? E il tribunale social: che potere può esercitare, quali decisioni gli permetteremo di estorcere d’ora in avanti? Anagrama, facendo un passo indietro, ci consegna in mano questi interrogativi, tutti spinosi e urgenti, con cui al più presto dovremo fare i conti.

Disponibile su Disney+, racconta la storia (vera) di una donna malata di cancro che, prima di morire, decide che è disposta a tutto pur di fare una cosa che non è mai riuscita a fare: avere un orgasmo con un'altra persona.