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Se vi è piaciuto Chiamami col tuo nome amerete Dreams, il film che ha vinto la Berlinale

Diretto dal norvegese Dag Johan Haugerud, racconta la potenza del primo amore e il modo in cui ci cambia per sempre.

Ella Øverbye nella parte di Johanne, la protagonista di "Dreams"

«Rispetto agli altri due film che compongono questa trilogia, Love e Sex, Dreams è quello che fa un discorso meno ipotetico», dice Dag Johan Haugerud per spiegare cosa rende diverso dal resto della sua produzione il film con cui ha appena vinto l’Orso d’Oro all’ultima Berlinale (nei cinema italiani dal 6 marzo). Di sentimenti e relazioni amorose il regista norvegese è uno specialista: negli ultimi anni ha scritto e diretto una trilogia di film che indaga il sentimento amoroso dal punto di vista carnale e spirituale, tenendo sullo sfondo di una Norvegia contemporanea fatta di fluidità di genere, relazioni occasionali e legami saldi. Il suo è un cinema di tenerezza e intimità molto raccontate a parole, esplorate a piccoli gesti, conversando con sconosciuti sul traghetto che porta al lavoro o con una cara amica che all’improvviso possiamo riscoprire ostile, giudicante. Perché l’amore per Haugerud è un terreno di negazione e negoziazione continuo, in cui ognuno ha limiti e confini differenti e spesso sorprendenti, in primis per sé stessi.

Cosa c’entrano i sogni adolescenziali di Dreams con gli adulti innamorati e consapevoli di Dag Johan Haugerud? Tanto, tantissimo, per un film che viene facile accostare a Carol di Todd Haynes (regista presidente della giuria che ha assegnato l’Orso a Haugerud). Dreams e Carol si somigliano per trama e tematiche trattate, certo, ma anche e soprattutto per l’incredibile capacità di catturare i segnali e i turbamenti più effimeri del primo amore. La protagonista di Dreams è Johanne, un’adolescente vittima del classico colpo di fulmine per la docente di francese. L’esperienza è così istantanea, così profonda e sconvolgente che quando la madre le chiederà conto della sua presa di consapevolezza del suo essere queer, lei rimarrà interdetta: l’innamoramento è stato così repentino e così potente che la ragazza non è nemmeno arrivata ad elaborare quel versante della relazione.

Un coming of age che piacerebbe a Luca Guadagnino

Una relazione che ricorda appunto quella di Carol o quella di un altro recente classico del coming of age amoroso al cinema: Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino. In tutti e tre i casi c’è un giovanissimo che s’innamora per la prima volta di una persona più adulta, più consapevole, più smaliziata. Nell’evoluzione del rapporto con l’adulto oggetto d’amore quest’ultimo, consapevole o meno del suo status, rimane in una posizione di potere data dalla sua esperienza, dalla capacità di non venire travolti dal sentimento, dalla minore intensità dello stesso.

Per Dag Johan Haugerud il punto d’interesse in Dreams è proprio l’unicità del primo innamoramento, che da una parte è irripetibile nel suo essere così dirompente e sconvolgente, tanto da manifestarsi in Johanne quasi come una febbre che la costringe a letto per qualche giorno. Dall’altra però la sua potenza si consuma in fretta, tanto che a fine pellicola la protagonista è una persona differente, forgiata e formata anche da quell’esperienza, che fatica a riconoscere gli scritti della sé stessa del recente passato.

Ciò che rende Dreams accostabile alle migliori pellicole del genere è la sensibilità estrema con cui coglie le manifestazioni anche minime di questo sentimento, con una precisione davvero lodevole di raccontare per immagini l’impalpabile e l’effimero proprio del desiderio. C’è una scena in cui Johanne è seduta vicino all’insegnante, in un contesto informale, e il film riesce a trasmettere il suo desiderio istintivo di toccare la pelle dell’amata ancor prima di metterlo in parole, grazie alla composizione della scena, alla fotografia caldissima, all’interpretazione dalla protagonista.

Dreams però non si limita a raccontare bene un primo amore: se si fermasse lì, sarebbe solo un altro contributo a un filone cinematografico già affollatissimo. Quello che l’ha reso popolare in sala in Norvegia è il secondo passaggio che fa, ovvero quello di esplorare l’impatto del primo amore a distanza di tempo, costruendo un racconto multigenerazionale dentro la famiglia della protagonista. Johanne infatti si confida prima con la nonna, poi con la madre, scatenando una serie di confronti tra le due, ridefinendo la sua relazione con entrambe. Le due adulte a loro volta la riscoprono diversa da come la percepivano, mettono a fuoco in questo processo molto di sé stesse.

«Durante la promozione del film in Norvegia ho incontrato tanti giovanissimi che mi confidavano di non riuscire a smettere di tornare in sala a rivedere il film», ha spiegato Haugerud. «È il risultato forse più lusinghiero che uno possa aspettarsi da un film che racconta il primo amore, ma mi ha colpito come tante signore di una certa età abbiano avuto la stessa reazione. A differenza della dimensione sentimentale adolescenziale, molto raccontata al cinema, loro faticano a sentirsi raccontate, rappresentate».

Il climax del film infatti non è dedicato a Johanne, ma alla nonna scrittrice. È a lei che che la ragazza mostra per la prima volta lo scritto in cui ha riversato i suoi sentimenti, che poi diventerà un romanzo. La donna, indipendente e un po’ nostalgica delle sue passate conquiste sentimentali, vive un momento di crisi scatenato proprio dalla nipote, che condivide il suo talento letterario e sta per entrare in quel mondo delle relazioni amorose da cui lei si sente uscita per sempre. Prima Haugerud fa salire una lunghissima scala alla donna insieme alla sua editor mentre questa le dice senza tanti giri di parole che la nipote scrive molto, molto meglio di lei. In seguito, sul finale, le fa risalire la stessa scala con un numero di danza contemporanea che mette su schermo il suo desiderio insoddisfatto di venire toccata, amata anche se non più giovane. Era sempre stato lì, ma ad aiutarla a metterlo a fuoco (e a renderlo improvvisamente doloroso) è stato proprio il manoscritto della nipote.

Quello che rende Dreams più a fuoco e riuscito dei suoi predecessori Love e Sex è che è, appunto, meno ipotetico, come dice Haugerud. Per scriverlo ha scavato nella sua memoria personale di adulto, rielaborando i suoi ricordi ma catalizzando nei personaggi adulti le sue sensazioni di adulto rispetto agli stessi: «È innegabile che ci sia molto di me in Dreams. Conservo un ricordo davvero molto vivido del mio primo amore e ho cercato di infonderlo nel personaggio di Johanne, ma volevo che fosse un racconto visto da più generazioni, perché l’ingresso nel mondo dell’eros ti cambia per sempre. Come ci entri, con che esperienza, è uno dei fattori che ti influenzano anche a distanza di decenni, anche quando non te ne rendi conto».

Una storia d’amore tra una scrittrice e la scrittura

Dreams è anche un doppio coming of age, che racconta la nascita di una relazione ben più duratura rispetto a quello con la docente: quella tra Johanne e la scrittura. Un escamotage che consente al film di appoggiarsi per lunghi tratti alla voce fuori campo, ma anche di scrivere pagine bellissime su quell’ineffabile amoroso così difficile da catturare solo a parole o solo con le immagini.

Il filtro della scrittura rende poi Dreams più sfumato, più ambiguo. Da subito siamo consapevoli che Johanne è in un posizione debole rispetto a chi ama, per la sua inesperienza amorosa. Il suo talento istintivo come scrittrice però finisce per mettere noi spettatori nella posizione più debole, perché pagina dopo pagina Johanne prende dimestichezza con il mezzo e ne intuisce la componente creativa. Mentre con brutale onestà si mette a nudo nei suoi sentimenti, con una serie di allusioni e opportuni silenzi lascia intuire che ci sia una certa distanza tra ciò che racconta e ciò che è successo. Discrepanze che portano la madre e la nonna a leggere e rileggere lo scritto e a noi a interrogarci su cosa sia davvero successo, su cosa sia stato taciuto. Nelle fasi finali del film Johanne commenterà un po’ irritata quanto abbia protetto la sua amata nel racconto, raccontandola come inconsapevole di quanto stesse succedendo laddove, sembra alludere, quest’ingenuità è un puro artificio letterario.

È come se Johanne si tirasse fuori dalla sua stessa ingenuità usando la scrittura come puntello, per difendersi, capirsi, scaricare le emozioni che sente. «La scrittura è creazione, sempre», rimarca Haugerud. «Anche quando tenta di dire la verità, in realtà ne crea una versione personale, spesso mediata. In un certo senso, scrivere qualcosa significa avere una seconda esperienza della stessa e talvolta credere che quella a parole e fittizia sia ciò che è autenticamente successo».

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