Questo reportage fa parte di “Studio estate”, serie di ritratti di personaggi e di luoghi da scoprire e riscoprire durante le vacanze d’agosto. Potete leggere altri articoli della stessa serie a questo link.
Ero arrivato a New York con l’idea di scrivere del Grande Hamburger Americano. La definizione non è mia, ma coniata qualche tempo fa – saranno stati i primi anni Duemila – dal New York per parlare dell’hamburger di Five Guys. Il ristorante in questione sarebbe, nelle idee del mag, una sorta di Franzen dell’hamburgeria, e il suo bacon burger la Pastorale americana di Roth. Una cosa tremendamente seria quindi, quasi più seria di quanto non ci faccia piacere ammettere da questa parte dell’Oceano. All’interno della sede di Times Square c’è ancora un quadretto pronto a ricordartelo: quell’hamburger c’è sempre stato, ci sarà domani e c’è soprattutto oggi, confermandosi come la miglior alternativa per un «lunch burger» come orgogliosa affissione all’ingresso conferma. La stessa definizione di “lunch burger” rivela l’esistenza della possibilità di classificare gli hamburger non solo in base al loro costo e gusto, ma anche per finalità.
Prima di partire quindi avevo fatto tutte le ricerche del caso, sondato forum e classifiche più o meno istituzionali – una su tutte, quella di Bloomberg – arrivando a setacciare per parole chiavi gli archivi dei principali magazine e quotidiani newyorkesi. Avevo pensato proprio a tutto, stilando una lista (corredata da indirizzi e metro più vicina) che andava da “gastropub” da 30 dollari a burger fino a Shake Shack, passando per ex speakeasy e vecchi segreti locali oramai riconvertiti in altro. La mia spedizione però si è arenata ben presto, fermandosi a un impietoso 5/10 finale, e questo perché appena arrivato sono incappato in un interessante articolo del New York (la vera costante di questa storia) che si interrogava sul futuro della ristorazione americana. In particolare, secondo Adam Platt – ma secondo buona parte della letteratura in merito – la diffusione della cucina americana si deve soprattutto alla diffusione di un tipo di ristorante: il diner.
La storia del diner è lunga, affascinante e molto cinematografica. Secondo quanto riferisce il dinermuseum.org la parola “diner” deriva da “dining car”, e fa riferimento alla possibilità di spostare il locale in questione in giro per l’America. In origine, infatti, il diner nasce come pre-fabbricato, una soluzione economica e immediata, che solo nel corso degli anni si è stabilizzata, diciamo. Nei diner americani si sono scritte alcune delle più celebri pagine della storia della letteratura, del cinema e della canzone made in Usa. I bar in Italia, i bistrot a Parigi, i diner in America: l’equazione dovrebbe essere pressappoco questa. Nei diner è entrato Holden Caulfield infreddolito e impaurito una volta giunto a Manhattan; in un diner cominciano tutti (o quasi) gli episodi di Seinfeld; e in un diner – seppure non newyorkese – si svolge una delle scene più comiche di tutto Pulp Fiction. La lista sarebbe lunghissima.
Ma come stanno i diner, e che fine hanno fatto? Non è semplice dare una risposta, pur setacciando Manhattan e Brooklyn alla loro ricerca. L’impressione generale è che siano in difficoltà perché è in difficoltà la stessa idea di diner, attaccata da un lato dai fast food e dall’altro dai negozi bio, intervallati dalla moda del gourmet che ha spinto i proprietari più volubili a darsi una riverniciata. Un report di Cran di qualche anno fa, citato anche dallo stesso Platt, parla di una decrescita di circa 600 unità dei locali con la parola “diner” (o “bar”) nella loro insegna negli ultimi anni, e la colpa principale sembra essere del nemico numero uno da queste parti: la gentrification. Prima ancora che cominciasse a modificare il volto di interi quartieri, che diventasse l’argomento preferito di ogni discussione intorno a Williamsburg, l’aumento dei prezzi degli affitti aveva colpito proprio i diner, rendendo quasi impossibile il proseguo della loro attività.
L’intuizione di Cran trova appiglio nella realtà: sul New York Times Karen Stabiner ha fatto i conti, evidenziando una sproporzione enorme tra i prezzi per gli affitti a New York e quelli di Los Angeles e San Francisco (che qualche tempo fa ha superato Manhattan nella infausta gara all’affitto più esorbitante). Secondo i dati di CoStar infatti, in media un locale “restaurant friendly” a NY costa 120$ in affitto al piede quadro: fatte le proporzioni sarebbe intorno ai 1200$ per metro quadro; Los Angeles si ferma a 520$. I costi di New York insomma, sono a tutti gli effetti doppi rispetto al resto della nazione, senza considerare che solo negli ultimi otto anni sono aumentati di circa il 10 per cento. A questo, fa notare Stabiner, va aggiunto anche il costo del lavoro, visto che il minimum wage newyorkese è più alto che altrove, aumentato di molto negli ultimi anni e destinato ad aumentare ancora entro il 2018.
Eppure la fredda matematica è solo uno dei punti quando si vuole raccontare il declino di un certo tipo di ristorazione americana. Fin dall’adolescenza ci hanno insegnato che gli americani cucinano meno di noi, mangiano più spesso fuori e, in generale, spendono di più (almeno in termini di frequenza) in ristorazione. Se tutte queste cose sono vere – e lo sono – è anche vero che la spesa media che ogni individuo può permettersi è, nel corso degli anni, diminuita, costringendo ognuno a trovarsi di fronte a una scelta. È qui che entrano in ballo due degli argomenti preferiti del food writing contemporaneo: Instagram e l’avocado toast.
Qualche settimana fa su The Verge usciva un articolo in cui si identificava in Instagram il movente del cambio di estetica dei ristoranti contemporanei. In sintesi, tutto – dai menù fino alle piastrelle del bagno – all’interno della nuova generazione di ristorante americani sarebbe votato all’estetica Instagram. La nuova proprietaria del The Tuks’Inn, a Bushwick, chiamata in causa sull’argomento ha detto: «[nella ristrutturazione del locale] abbiamo letteralmente pensato alla cornice delle fotografie, e come potevamo catturare in quella cornice l’esperienza del nostro posto, in particolare nella cornice quadrata di Instagram». Per quanto assurdo possa sembrare, quella della condivisione social è una variante da tener sempre più a mente nella proposta gastronomica, specialmente quando ci si ritrova davanti a delle scelte. In parallelo viaggia la teoria dell’avocado toast, e cioè quella di una generazione oramai irrimediabilmente abituata a mangiare e vivere in un certo modo, a cui neanche l’assillo della maturità economica farà cambiare idea. Se è vero quindi che gli affitti sono diventati troppo alti, è anche vero che i diner americani hanno perso di appetibilità e restano il rifugio di abitudinari, working class e turisti in cerca di un’esperienza “vera” (che si rivelerà poi non così vera).
C’è però ancora tanto di vero in alcuni dei diner rimasti in città. C’è di vero in Joe Jr, piccolo diner sulla Terza strada vicino a Gramercy Park, famoso quasi esclusivamente per la bontà del suo cheeseburger a sei dollari, una rarità impareggiabile per quanto riguarda la fatidica equazione qualità prezzo. Ci sono i lunghi tavoli di legno rivestiti in plastica, gli enormi menù che non hanno mai visto finire gli anni Ottanta. Marcos cucina in totale sintonia con il manager, Armando, che mi concede qualche battuta mentre assaporo quel famoso cheeseburger, impreziosito da una cipolla fresca che fa tutta la differenza del mondo. Armando non ha idea particolarmente originali sul perché di questa crisi. La nota, prova a resistergli costruendo un senso di comunità che, dice, risiede nell’origine stessa dei diner. Guarda a chi sta peggio di lui, ai luncheonette per esempio – una versione in miniatura dei diner, ormai praticamente estinta (uno dei pochi superstiti, Johnny, fa i migliori pancake della città). Poi si congeda con un sorriso e corre ad accogliere un ragazzo che ordina «il solito», quasi a voler confermare la sua teoria.
La familiarità si costruisce anche con una scelta precisa degli interni. Parrebbe esser stata questa l’idea del Kellog’s Diner, scintillante diner dai colori pastello nel cuore di Williamsburg. Nel 2008 infatti, una pressoché totale ristrutturazione ha ricostruito un locale vintage in tutto e per tutto, dall’insegna ai divanetti, fino alla cameriera che ti si rivolge chiamandoti «honey». Mi ci sono rifugiato cercando un buon bagel cream cheese e lox, stupendomi per le dodici pagine di menù e per l’enorme numero di sandwich a disposizione del consumatore. Qualche giorno più tardi, facendo qualche ricerca, ho trovato una intervista molto interessante al suo proprietario, sul New York Business Journal. Il Kellog’s infatti, viene considerato un diner di successo (io ci sono entrato alle quattro del pomeriggio, trovandolo pieno per metà) ma per restar competitivo ha dovuto far delle scelte che vanno pesantemente in direzione della modernità: si è dato all’home delivery; come McDonald’s, addirittura, ha esternalizzato la produzione del pane, ha esteso il suo menù, adattandolo alle esigenze dei suoi consumatori. È una strategia opposta a quella di Joe, che sta però pagando gli stessi dividendi, tenendo a galla due eccezioni in un settore destinato a scomparire.
Lo sta documentando fotograficamente anche Riley Arthur, nel suo ultimo progetto Diners of New York (che ha anche una pagina Instagram). Si è preposta di fotografare 215 diner dei cinque borough di New York, provando a fermare il tempo, incorniciando un declino che è in parte perdita culturale della città. Ci si trovano foto notevoli, consigli per il brunch, la cena o un donut nel cuore della notte. A Lonely Planet ha detto che, girando per questi luoghi, si è accorta di come questo particolare tipo di ristorante vada a servire piccole nicchie rionali, con un senso comunitario molto forte, che tuttavia non sembra essere grande abbastanza da impedire le chiusure che settimanalmente documenta. Neanche le sue qualità sono in grado di squarciare quel velo di nostalgica tristezza che si prova pranzando o cenando nei diner. Un’atmosfera da sopravvissuti, con la strana sensazione che quel pasto potrebbe essere l’ultimo che consumerai in quel posto, prima che il prossimo “fancy restaurant” o burger bar di turno arrivino a pagare l’affitto. E non ti salveranno neanche le preferenze dei Millennial per il vintage, o la ricerca di una cornice alternativa per Instagram. I diner sono destinati a morire, e non c’è nulla che si possa fare per impedirlo.