Se i dazi sono un problema, lo è anche il sovranismo alimentare italiano

È facile sbraitare contro Trump e le sue politiche protezionistiche, ma il modo in cui produciamo, distribuiamo e promuoviamo il cibo in Italia è un problema assai più grave e difficile da risolvere.

24 Marzo 2025

C’è chi dice: “Da grandi crisi nascono grandi opportunità”. Chissà se è vero, o quantomeno chissà se è necessario. Arrivare alla crisi dico, con tutti i casini e le sofferenze che seguono, nonché le depressioni e quella perturbante sensazione di immobilità che ci fa passare decenni nell’attesa della soluzione.

Ma facciamo finta che sia vero, e in riferimento al settore agricolo domandiamoci: visti i dazi americani che colpiranno come le falciatrici a cottimo i nostri prodotti, cosa possiamo imparare dalla crisi, considerato che siamo un Paese che esporta (importa poi riassembla e dunque esporta)? E considerato naturalmente anche il gioco del domino globale, che implica a proposito di prodotti agricoli che se si muove un pezzo poi cambia tutta la scia. Per dire, ci sono dei broker che mentre noi beviamo l’aperitivo stanno cercando proprio in questo momento enormi quantitativi di uova (soprattutto in Veneto) per soddisfare il mercato americano.

Contro i dazi, ma non solo

Va bene, uno può dire che la questione dei dazi è proprio sbagliata. Il Presidente americano ritiene che i dazi possano essere utilizzati per risolvere qualsiasi cosa: aumentare le entrate fiscali, sostituire le tasse nazionali, eliminare il deficit commerciale riequilibrando gli scambi, riportare i posti di lavoro manifatturieri negli Stati Uniti, proteggere la sicurezza nazionale. Ovvio che una consistente fetta di analisti economici spiega e rispiega che sì, i dazi possono, in effetti, a volte aiutare a raggiungere alcuni di questi obiettivi. Ma data la natura complessa e interconnessa di questi problemi, usare le tariffe per risolvere uno di essi potrebbe ostacolare la capacità del Paese di risolverne un altro.

Va bene, ma torniamo a noi, in campo agricolo/alimentare, cosa possiamo imparare da questa crisi dei dazi? Preferisco rubricarla in maniera rude, anche perché va di moda la rudezza, dico. La questione di fondo è che ci crediamo ‘sto cazzo. In campo agricolo siamo tutti ipersovranisti, iper controllori di confini. In campo agricolo, noi italiani sono decenni che mettiamo dazi mentali al nostro prossimo.

Un po’ le ricette come le faceva la nonna nessuno mai (che poi quanti anni ha ‘sta nonna italiana? Visto che io potrei essere nonno e però sono cresciuto, per fortuna, con i Plasmon e l’abbondanza alimentare e industriale degli anni ’60). Un po’ la convinzione che come coltiviamo noi nessuno mai, che se coltivi italiano, in ragione di non si sa bene di quale qualità intrinseca, esce fuori quella qualità italiana che tutti ci invidiano. Un po’ il provincialismo, i campanili, le polemiche tra i contadi e i marchesati, pure quelli sono dazi.

Batteri e buoi dei paesi tuoi

A proposito di confini speciali che dobbiamo proteggere dall’invasione. Una volta lessi un bel paper di Paolo Giudici: i prodotti alimentari e il falso mito dei microrganismi autoctoni. Che affrontava in maniera tecnica e raffinata la questione da me rudemente posta come: “ci sentiamo ‘sto cazzo”. Ovvero: tutto ciò che è di casa nostra è buono, tutto quello che viene da fuori è male. Lega? Trump? No, una certa sinistra slow. Vediamo che scopre Giudici. Evento tenutosi a Pollenzo in occasione dell’apertura del “Cheese” di Bra, la rassegna di Slow Food dedicata ai formaggi.  Qui si sostiene che: «Il Parmigiano-Reggiano è “autoctono”. Infatti la tecnologia di trasformazione del latte in formaggio, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri “autoctoni”, cioè quelli nati nel territorio. Altrimenti che senso avrebbe parlare di origine? È come dire che il “re dei formaggi” non si accompagna con i batteri di importazione, o se vogliamo, i batteri “extra comprensorio d’origine».

Insomma: vogliamo solo batteri di casa nostra e non di importazione, niente batteri immigrati.

Giudici si mette con santa pazienza cercando di spiegare che: A) le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo può essere di pochi mm, non certo grande come il comprensorio; B) il comprensorio non è omogeneo per temperature, piovosità, suolo e altro ancora; C) i microrganismi non conoscono la geografia, quindi, per loro è difficile distinguere tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa; D) i coliformi fecali sono i microrganismi sempre presenti e in gran numero nel latte crudo. I veri autoctoni! E) la razione alimentare delle vacche da latte è composta di una quota elevata di mangimi extra aziendali ed extra comprensorio; F) la qualità microbiologica delle acque d’irrigazione, visto l’alto grado d’antropizzazione del territorio e l’intreccio tra acque d’irrigazione e acque scure, ha un alto grado di contaminazione da microrganismi fecali. Voi capite bene che quando si ha un immaginario così piccolo, tutto concentrato sul proprio orto, poi si commettono peccati come quello di cui sopra: batteri e dunque dazi di casa nostra.

Se tendiamo a proteggere i batteri di casa nostra, ci immaginiamo cosa succede con cose più visibili? E infatti succede. E succede poi un casino. Allora, chilometro zero! Perché il prodotto del contadino amico mio, entro quei confini definiti, è meglio di quello che viene fuori dal confine? Ok, vada per il prodotto del contadino amico. Ma il vino? Lo possiamo esportare? Certo, sì. E le verdure? E le verdure dipende, forse sì, forse no. Le mele? Un nostro vanto, insomma, non dovremmo, però poi chi se le mangia tutte le mele italiane? E l’olio? Sapete, per i non addetti ai lavori la questione dell’olio è un po’ vista nell’immaginario come la famosa invasione dei napoletani a Roccaraso. Non facciamo altro che lamentarci dell’invasione dell’olio d’oltre confine. Ovviamente mentre ci lamentiamo ignoriamo che abbiamo costi di produzione elevati, superiori a 5,7 euro per kg d’olio, con produzioni peraltro alquanto esigue, inferiori a 0,6 tonnellate per ettaro, quindi di fatto non esiste la necessaria remunerazione per chi lavora. Meno del 5 per cento delle aziende è professionale, prevale l’impegno hobbistico. Non ci si avvale di tecnici esperti, si va a caso, per sentito dire. La soluzione? Colpa degli altri, mettiamo dazi.

Locale è internazionale

Ci sono centinaia di esempi in tal senso che sottolineano la questione di fondo di cui sopra. Quello che non notiamo, pervasi da sovranismo (poi, per carità, anche a fin di bene) è che un prodotto locale, oggi, per come è fatto il mercato, è a tutti gli effetti un prodotto internazionale, sovranazionale, che ha abbattuto i confini. Richiede per essere prodotto di empatia, umiltà, analisi serie e buoni compromessi.

Roberto Brazzale fondatore della Brazzale Sia (azienda lattiero-casearia tra le più antiche d’Italia) ha spesso ragionato sul concetto di made in Italy e ha detto: «Oggi si definisce made in Italy un formaggio Dop, fatto a Brescia ma con latte proveniente da vacche acquistate a suo tempo in Baviera, nutrite con soia brasiliana, mais americano ed erba medica disidrata spagnola. Manze inseminate con seme di toro Canadese, munte in sale di mungitura con tecnologia tedesca e curate da bravi bergamini pakistani o albanesi. Latte poi trasportato da autista bosniaco, cagliato da un casaro moldavo, poi conservato in un magazzino da un bengalese, il tutto poi ottenuto su un podere concimato con concimi canadesi o tedeschi, distribuito con macchine americane che a loro volte sono il risultato di assemblaggi di pezzi diversi».

Insomma, la crisi dei dazi, almeno in campo alimentare dovrebbe aiutarci a ragionare sulla questione confini e sovranità in senso più ampio: i cicli produttivi si sono espansi come una fisarmonica, pensare di affidarsi alle sole produzioni italiane significa (anche per mancanza di materie prime) condannare il made in Italy al collasso: filiera corta, sostenibilità, ecc., sono protocolli di produzioni utili e vantaggiosi, ma perdere la dote dell’empatia che ci fa apprezzare nonché lavorare (si spera con vantaggio reciproco) con altre persone di diversa cultura ma con la stessa voglia di partecipare al mondo, nonché di migliorarlo, ecco perdere questa empatia (che poi è la base di una sana analisi realista) è proprio un dazio alla conoscenza.

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