Cultura | Letteratura

Com’è bello guardare la poesia in tv

Il documentario su Dario Bellezza, il "Rimbaud di Monteverde", su Sky Arte dal 29 giugno, è un'altra conferma del sorprendente ritorno della passione per poeti e poetesse.

di Giulio Silvano

Michele Mari, importante romanziere contemporaneo, è sempre rimasto uno di quei nobili casi di scrittori letti e commentati da scrittori (il paese dei lettori forti si divide in nonne borghesi, prof delle medie e gente dell’editoria, di cui fan parte gli scrittori). O comunque, nonostante un libro altissimo come Leggenda privata, Michele Mari non è mai stato, come spesso capita a scrittori del suo rango, un bestsellerista. Ma lo è in qualche modo diventato quando ha scritto un libro di poesie, nella collana Bianca di Einaudi (super instagrammabile, disegnata da Bruno Munari nel ‘64). Per un caso assurdo, Le cento poesie d’amore a Ladyhawke, uscite nel 2007, sono diventate il libro più celebre dello scrittore. Il suo primo libro di poesie, testi nati per una corrispondenza privata, mai concepiti come prodotti per il pubblico, versi che vengono citati ai matrimoni – e non da coppie che si sono conosciute alla Holden – o postati sui social, ancora oggi condivise su TikTok. Quando Mari ha letto al festivaLino le sue poesie l’anno scorso, c’erano decine di ragazzine in assetto da concerto di Harry Styles che pendevano dalle sue labbra.

Il caso Mari, forse è isolato, o forse ci dice che la poesia in qualche modo sta tornando, forse perché è perfetta per la nostra epoca. Questo mese da Verso, avamposto milanese dello Zeitgeist letterario, si è tenuta una serata in cui sono state lette poesie di Patrizia Cavalli. Al Macro è anche in corso una mostra con le foto della sua casa e una selezione di manoscritti. Su Cavalli di recente è uscito anche un bel documentario, molto intimo, dove la poetessa di Todi scomparsa nel 2022 parla di amore e di poker e di Elsa Morante con un candore commovente e beffardo. Il 29 giugno, su Sky Arte alle 21:15, arriva un altro documentario, questa volta su Dario Bellezza, il “Rimbaud di Monteverde”. Romanissimo, allievo di Pasolini, elitario e rappresentante di una Roma gay e letteraria che non c’è più, Bellezza è morto di Aids nel ’96.

Il doc, Bellezza, addio, diretto da Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, fa parlare chi l’ha conosciuto, creando quindi un’atmosfera celebrativa in memoriam, e ha il pregio di tirare fuori vecchie clip del secondo Novecento. «C’erano i matti veri all’ora, uscivi per Roma e incontravi Pasolini, Bellezza, Moravia, Arbasino, di passaggio magari Gadda e Parise, per la miseria!», dice Barbara Alberti fumando una sigaretta elettronica.

C’è l’ormai celebrato festival di Castelporziano – raccontato anche da Emanuele Trevi in Sogni e favole – con una giovanissima Dacia Maraini, con Maria Luisa Spaziani, e volgari hippy che si denudano sul palco. Bellezza che grida: «siete dei fascisti», perché, come dice Franco Cordelli, lui era un uomo del Novecento. E quindi non era vera, per lui, quella frase che appiccicano oggi gli hipster sui muri di Roma: «il poeta sei tu che leggi». No, il poeta è chi scrive poesia, chi dedica tutta la vita. E infatti in tv, col suo cappello da pescatore o con il fazzoletto rosso al collo, Bellezza dava della puttana ad Aldo Busi perché vendeva i suoi libri. E forse la nostalgia che ci tocca oggi, più che quella di incontrare i mostri della letteratura a Piazza del Popolo, ha a che fare con il vedere la possibilità che esista un’epoca preconsumista, dove vendere era cafone, o al massimo un effetto involontario. Oggi l’editoria è spesso una fabbrica in cui si cercano di trasformare i follower in lettori. Alberti chiama quel periodo in cui scriveva Bellezza: «l’ultimo tempo della libertà, prima di diventare tutti consumatori», quando ancora ci si consumava sì, «ma con l’eccesso, con la passione». Nostalgia «per il potersi ribellare».

La poesia è morta quando è morto Pasolini, dice Renzo Paris. La poesia «come sale della terra non c’è più stata dopo il ‘75». Oggi cosa sia la poesia è inutile chiederselo come era inutile chiederselo al tempo di Shakespeare o di Giovanni Giudici, ma se è vero che esiste questo trend, questa timida reinassance della rima e del verso, si deve anche alla figura del poeta come essere inadatto al capitalismo contemporaneo. Basta ascoltare Cavalli che fa un elogio del perdere tempo.

Come fossero ciabattini, lattai o lampionai, mestieri di una volta che non hanno retto al progresso, i poeti forse tornano come animali estinti, ancora più outsider di quanto non lo fossero in vita. Per anni hanno dovuto fare i bohèmien e attendere la legge Bacchelli oppure fare altro – uno come Franco Fortini, ad esempio, scriveva (bellissime) pubblicità per la Olivetti – e raramente hanno potuto sopravvivere solo di parole. «Il pubblico della poesia sono i poeti stessi», rincara Cordelli.

A Malpensa è stata appena inaugurata una “Vip lounge” dedicata ad Alda Merini, paradosso simile alla centrale a carbone di La Spezia dedicata a Eugenio Montale. Ma non sono le uniche storture prodotte da quest’epoca, ci sono anche Guido Catalano, Francesco Sole e simili, per non parlare degli Insta-poet e delle figlie di Rupi Kapur che inquinano i feed (in attesa dell’AI). Ma forse possiamo spiegare la fioritura di questa materia tendenzialmente da liceali, da innamorati, da sognatori, come freno al doomscrolling. Oppure perché la poesia ben si adatta all’era della distrazione: brevità, sei righe da leggere ad alta voce, come la durata di un reel.