Cultura | Letteratura

Daniel Mendelsohn, scrivo dunque critico

Abbiamo parlato con lo scrittore del suo ultimo libro, Estasi e Terrore, una raccolta di saggi e recensioni che spaziano dai classici greci fino ai miti della cultura popolare contemporanea.

di Gabriele Sassone

Di persona Daniel Mendelsohn incarna perfettamente lo stile della sua scrittura: severa ed elegante, erudita e profondamente ironica, ma soprattutto capace di eccellere sia nella prosa sia nella critica senza trascurare la chiarezza. Il suo ultimo libro, Estasi e Terrore (Einaudi, 2024) è una raccolta di saggi e recensioni che spaziano dai classici greci fino ai miti della cultura popolare contemporanea. Lungo le quasi 400 pagine di cui è composto, s’incontrano Saffo, Pedro Almodòvar, Ovidio, il Titanic, Costantino Kavafis, Erodoto e tanto altro ancora. Nonostante la complessità della struttura e la quantità dei riferimenti, Estasi e Terrore si distingue per la versatilità con cui può essere letto: per il piacere di imparare o di rispolverare nozioni spesso legate agli anni di formazione scolastica, per le imprevedibili connessioni tra epoche lontanissime, per sorridere di una critica negativa o di un giudizio fulminante; o, più semplicemente, come un involontario manuale sull’arte di scrivere recensioni. Ne abbiamo parlato con l’autore in occasione di un talk tenutosi al MAXXI di Roma il 13 giugno per la rassegna “Le Conversazioni”, curata da Antonio Monda.

Nell’introduzione, lei descrive come gli articoli di critica culturale abbiano costituito il pilastro della sua vita da scrittore. Dopo tanti anni di carriera, che motivazione o piacere trova nello scrivere ancora delle recensioni?
Di certo posso dire che la motivazione nel corso degli anni sia cambiata. Quando si esordisce come critici si è pieni di ambizioni, si sente di aver dentro tante cose da dire e di volerle dire tutte. La critica è ancora oggi una passione per me, anche se mi rendo conto del rischio di riscrivere un articolo o una recensione che ho già scritto. C’è stato un periodo in cui i direttori di giornali e di riviste sapevano della mia formazione in filologia classica: quando si trattava di recensire un film, come per esempio quello su Alessandro Magno, chiamavano me di default. La cosa mi divertiva allora, adesso forse non è più così.

Perché?
Nella professione del critico è davvero difficile cercare continuamente delle nuove sfide, altrimenti è probabile incastrarsi in un solco e toccare sempre gli stessi temi. Ultimamente mi hanno chiamato per recensire un volume di letteratura classica, ritenendo che avrei potuto farlo a occhi chiusi, e io ho rifiutato perché è proprio ciò che non voglio più fare. Arrivato a questo punto della carriera, ho bisogno di essere costantemente stimolato, provocato; dopo tanti anni, mi sono accorto che è cambiato anche un certo mio modo di scrivere: ora i pezzi sono più brevi e più personali rispetto a prima. Comunque sia, bisogna sempre trovare il modo di esporsi a qualcosa che ti solleciti davvero.

Per esempio?
Di recente ho scritto diversi saggi e recensioni sulle arti figurative: un testo sul Bronzino, commissionatomi dalla Frick Collection, un importante museo di New York, e un contributo al catalogo della pittrice contemporanea Elizabeth Peyton. È stato molto stimolante per me, come se avessi pensato con un cervello diverso, una cosa sana. 

Spesso la critica è vista come un atto di distruzione anziché di creazione, soprattutto quando si critica negativamente. In questo senso, come si è evoluto il ruolo del critico, considerando la proliferazione dei social media?
Innanzitutto credo sia importante stabilire una chiara distinzione tra una recensione negativa e una recensione distruttiva, tra la critica negativa, severa, implacabile, e quella distruttiva – lo so per esperienza, perché come scrittore, oltre a recensire, anch’io vengo recensito. Una recensione negativa, una stroncatura intelligente, è una fra le cose più utili che possano capitare a chi scrive: si ha molto più da imparare da una recensione negativa intelligente anziché da una che ti sbavi dietro. Io stesso ne ho scritte di molto severe, perché prendo sul serio il mio lavoro, e gli standard che pongo a me e agli altri sono altissimi. Mentre se si è in cerca di elogi, di encomi, ci sono sempre i genitori [ride]. La stroncatura crudele funziona in modo diverso e, sebbene oggi si tenda a confonderla con la critica negativa, va assolutamente distinta.

In che modo?
Nella prima raccolta di saggi critici, Bellezza e fragilità (Neri Pozza, 2009), ho recensito il lavoro di un collega, Dale Peck, che aveva scritto un libro dal titolo Hatchet Jobs, traducibile come “lavoro d’accetta”. Da sempre Peck è famoso negli Stati Uniti perché scrive delle stroncature brutali, eppure divertenti; tuttavia, scrivendo così, non sei più un recensore severo, bensì qualcuno che mette un piede in una specie di spettacolino gladiatorio, dove la gente accorre perché sa che lì vedrà scorrere del sangue, e quindi finisci per essere inascoltato. Per questo motivo dico che non è utile la recensione distruttiva. Io conosco Peck, è un uomo intelligente, e ogni tanto mi chiedo perché sprechi la sua carriera quando potrebbe scrivere recensioni negative, sì, ma allo stesso tempo costruttive.

C’è una critica distruttiva che l’ha ferita?
Non posso dire che mi sia mai accaduto nulla di così selvaggiamente demolitorio. Ci sono stati alcuni miei libri che non hanno entusiasmato qualcuno, però direi che il tipo di cose che scrivo, in fondo, non si presta per essere il bersaglio di stroncature feroci. Sarà forse per il timore che io, in quanto critico, stronchi a mia volta il lavoro di chi mi ha recensito [ride]. Ovviamente, su quanto ho scritto ci sono stati vari commenti poco lusinghieri, soprattutto sui blog, di persone che si sono arrabbiate leggendomi. Fare lo scrittore è una carriera strampalata, si svolge sempre di fronte agli occhi del pubblico: se tu lavori in banca, e fai un errore, il capo ti chiama in ufficio per farti una lavata di capo, ma nessuno lo viene a sapere; se invece, da scrittore, fai un errore, lo vengono a sapere tutti.

La sezione Miti di oggi si apre con un saggio dal titolo “Ma ora basta parlare di me: la voga del memoir”. Davvero pensa che il memoir sia un genere in via d’estinzione o è possibile che invece si stia soltanto trasformando in qualcos’altro?
Quel saggio ha almeno dieci anni, se non di più, quindi è in un certo senso datato. All’inizio degli anni Duemila c’è stata una specie di ondata inarrestabile del memoir, tutti scrivevano memoir, tutti ne parlavano, e il mio saggio si può considerare una risposta a quel momento. A ogni modo, da quando ho cominciato a scrivere, questo genere ha iniziato a subire vari cambiamenti: ora, per esempio, non si parla più tanto di memoir quanto di autofiction – negli anni Novanta, invece, all’interno dei circoli letterari del mio Paese, il memoir era uscito dalla voga corrente e non se ne poteva più.

Quindi, credo che la domanda giusta da porsi sia: perché scrivere dei memoir?
Questo dovrebbero chiedersi i critici. Anziché lagnarsi, sarebbe meglio chiedersi il perché delle cose.

Nel saggio sul Titanic, lei parla di come la tragedia del naufragio richiami un archetipo greco. Quest’attrazione per il concetto di disastro cosa ci dice della società di oggi?
La fascinazione che abbiamo nei confronti del disastro è ciò che sta al cuore della tragedia greca. Tutte le tragedie greche invariabilmente sono dei momenti in cui guardiamo cadere o sbagliare qualcuno che è arrivato molto in alto. Si tratta della bellezza della distruzione. A mio modo di vedere è qualcosa che soddisfa un’esigenza culturale profonda, che è quasi apotropaica: se hai molto successo, se fai troppo affidamento sulle macchine, prima o poi verrai castigato. È una convinzione radicata in noi esseri umani. Credo sia specifico del rapporto con la natura e con il mondo questo sapere d’essere sempre minacciati da un pericolo, sempre a rischio. Quando succede qualcosa di tremendo, resta confermata e dimostrata l’idea che avere una vita perfettamente felice sia pura e semplice fortuna. Il nostro fascino per il disastro è un riflesso dell’ambiguità con cui guardiamo al nostro successo in quanto specie.

Nella sua carriera ha avuto numerosi riconoscimenti. Che rapporto ha con il successo? Ritiene che cambi la responsabilità nello scrivere o il modo di farlo?
Ti rispondo citando mia madre, che, quando vinco un premio, mi chiede: quand’è che vincerai anche un po’ di soldi dato che la gloria non serve a pagare l’affitto? Il successo di chi scrive è molto importante per gli editori, ma personalmente non credo che mi motivi. È chiaro, sono un essere umano come tutti e mi fa piacere essere riconosciuto, però per i premi vale quanto detto per le recensioni: sono significativi soltanto se provengono da un’istituzione o da qualcuno che abbia valore per noi.

Nel 2022 ha vinto il Premio Malaparte.
Ecco, quel premio è stato tanto significativo per me. Ha contato perché rinnovava il mio legame di lunghissima data con la letteratura italiana. Il successo può essere una motivazione valida per tante altre carriere, ma rimane invariabilmente sbagliata per chi scrive. Kavafis, il grande poeta greco, diceva che quando ti sforzi di compiacere il pubblico è inevitabile che tu tradisca te stesso.