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Tutti odiano il woke e nessuno sa cosa sia

È cominciata negli Stati Uniti e adesso, tra le elezioni europee e quelle francesi, è arrivata anche da noi: la guerra alla cultura woke, nuova ossessione delle destre internazionali.

di Andrea Beltrama

Sono le 10 di una mattina di giugno. L’account twitter End Wokeness, 2.5 milioni di seguaci e probabili legami con Elon Musk, ha già postato il sesto video di giornata: un disgraziato uomo di Oakland che spinge un carretto dei gelati, attraversa la strada, e viene brutalmente assalito da tre rapinatori. Commento al video: «Nemmeno l’uomo dei gelati è al sicuro. Abbiamo una crisi da sotto-incarcerazione». A pochi mesi dalle elezioni presidenziali in Usa, e a pochi giorni dalla conclusione delle europee, è difficile pensare a una fotografia migliore della retorica conservatrice. Il lassismo; il panico; il degrado. Stratagemmi comunicativi sempre validi dell’ideologia di destra, inseriti però nella cornice di una lotta a un nemico nuovo. Non un uomo; non un partito; non un disegno politico. Ma un concetto vago e indefinito, in bella vista nel titolo dell’account: la wokeness.

Nel giro di pochi anni un termine che in principio pochi conoscevano si è affermato come un jolly linguistico per riferirsi — e denigrare — qualsiasi cosa suoni vagamente di sinistra. Al punto che se un alieno piombasse direttamente su un comizio di Repubblicani, senza sapere nulla del nostro mondo, potrebbe scambiarla per una minaccia planetaria. A partire dalla “war on woke” dichiarata dal governatore della Florida Ron DeSantis, che ha finito con il diventare il tema ossessivo di ogni sua iniziativa. Fino alle frequenti esternazioni di Donald Trump, che infila la parola sostanzialmente in ogni discorso. Creando, nel mentre, eleganti aforismi come “everything woke goes to shit” stampato su una canotta in vendita su Amazon (link, in caso vogliate ordinarla). Ma l’espressione è arrivata a diffondersi pure al di fuori degli Usa. Come ci siamo accorti con il recente post elettorale di Salvini in cui invita i propri seguaci a rigettare “uomini incinti e follie woke”. Entrambe le cose, a suo dire, pericolose emanazioni dell’Europa.

E così, nel giro di pochi anni, si è fatto strada un nuovo tormentone per le destre del mondo occidentale. La cui forza d’urto, come per tutti gli insulti politici, non consiste tanto nell’identificare un problema da risolvere, ma nell’inventare un nemico da combattere. Nato come participio verbale con il significato di “sveglio” in Inglese afroamericano – stare all’erta voleva dire essere consapevoli dell’importanza delle battaglie per i diritti civili, ma pure non abbassare mai la guardia contro la repressione – la parola acquisì popolarità grazie al movimento Black Lives Matter. Prima nel contesto della lotta al razzismo, proprio come alle origini. E poi allargandosi ad esprimere un’allerta sociale più generale, un attivismo trasversale contro le ingiustizie sistemiche: la violenza sulle donne, la crisi climatica, la discriminazione verso i disabili. Peccato che, dieci anni dopo, l’energia progressista sprigionata dal termine si sia improvvisamente dissipata. L’attivismo continua, certo. Ma essere woke è sempre meno un motivo di vanto. Il risultato è quello di un ribaltamento di prospettiva radicale. In cui il termine è stato mutuato dal discorso di destra per esprimere illiberalità, spirito di censura, intolleranza, ottusità; proprio quei nemici che ogni cittadino morale, sveglio o dormiente che sia, dovrebbe combattere con vigore.

Si è trattato di un processo piuttosto rapido. Cui certamente alcuni interpreti del progressismo – sopratutto dentro bolle autoreferenziali come il mondo dell’università e quello del spettacolo – hanno contribuito. Trasformando l’attivismo woke in un esercizio performativo, più mirato a sbandierare l’impegno civile che a metterlo in pratica. Come si è visto nel radicalismo vista Pacifico incarnato Meghan e Harry, descritti come “the oppressive King and Queen of Woke” dal Sun; o nei tweet di certi professori universitari in caccia di notorietà, pronti a inventarsi nuove e creative ingiustizie da combattere per sentirsi persone virtuose. Con buona pace di questi casi limite, però, la “war on woke” resta il prodotto di una strategia di infangamento linguistico piuttosto sistematica da parte degli ideologi conservatori. Un po’ come successo con altri tormentoni del discorso reazionario come “lo spettro del gendero la “dittatura del politicamente corretto: due casi eclatanti di fenomeni politici e culturali estremamente complessi – e non certo intrinsecamente minacciosi – che sono stati trasformati in nemici dell’ordine pubblico.

La crescita di consenso delle destre, recentemente confermata alle elezioni europee e in quelle in Francia, ha permesso di osservare con spietata chiarezza il successo globale della lotta alla wokeness. Anche al di qua dell’Oceano, dove il termine ha fornito alle destre populiste un linguaggio condiviso al di sopra delle differenze nazionali, permettendo loro di presentarsi come un fronte unito e compatto. La cui missione comune è quella di rivoluzionare, o addirittura smembrare, l’idea stessa di Europa. Quell’entità che, declinata in varie forme, i conservatori americani continuano a vedere come un alleato culturale importante, oltre che come il simbolo delle loro radici etniche; e che invece, nella retorica delle destre sovraniste, è diventato simbolo di sfascio morale. Un incubo da rifuggire e un nemico da odiare — anche a costo di proporne un’immagine distorta e caricaturale. Proprio come le immagini di dubbio gusto usate nel post elettorale di Salvini.

Nel mentre, il processo di accumulazione dei significati continua inesorabile. Una volta importato oltreoceano e adattato alle battaglie nostrane, il wokeismo si è caricato di livelli di senso aggiuntivi, separandosi ulteriormente dalle proprie origini. Per il conservatore europeo, del resto, l’ideologia woke non rappresenta solamente un sistema di valori di segno opposto; ma è anche, in sè stessa, una minaccia straniera. Quella rappresentata da un puritanesimo americano – acritico e moraleggiante, globalizzato, incurante della complessità della storia – che, agli occhi di chi basa la propria identità sulle idee di tradizione e nazione, si presenta come il più pericoloso degli invasori. Non c’è dunque da sorprendersi che, tra un appello all’insurrezione e l’altro, anche in Europa l’idea di woke abbia finito per associarsi indissolubilmente al lessico del panico. Fomentando quello stesso fervore giacobino che, paradossalmente ma forse nemmeno troppo, viene proprio rinfacciato a chi le idee progressiste le abbraccia davvero.

Con una storia già così tribolata, e una generazione di significati così vorticosa, viene da chiedersi quale sarà il prossimo passo nell’uso del termine. Vedremo un’ulteriore impennata nella diffusione? O siamo già arrivati al picco che precede l’uscita di scena? Sul lato americano, sembra esserci un po’ di saturazione. Lo ha ammesso lo stesso Trump in un comizio di un anno fa, in cui dichiarò di non gradire particolarmente l’uso di un termine che «metà della gente nemmeno sa cosa voglia dire» – nonostante lui stesso lo usasse ossessivamente. Sul lato europeo, invece, sembra di essere solo all’inizio di una lunga luna di miele. Nel mentre, sembra farsi strada il tentativo, da parte dell’attivismo progressista, di ripulire il termine dalla melassa di significati aggiuntivi che ha via via accumulato. Come fatto dalla Ncaap (National Association for the Advancement of Colored People), storica associazione contro la discriminazione razziale, che ha lanciato una vera e propria campagna di riappropriazione dell’espressione, incoraggiando un uso del termine radicato nella sua storico contesto di lotta per i diritti civili, e condannando forme di abuso e distorsione della parola – su tutte, quelle ad opera dell’estrema destra. Quello che è certo è che, su entrambi i lati dell’Oceano, l’espressione la sentiremo ancora moltissimo. Resta da vedere se rimarrà principalmente uno strumento di aggressione verbale, saldamente in mano alla destra; o se riuscirà a riprendere un po’ della spinta visionaria del passato. Restituendo un po’ di spessore intellettuale a un dibattito politico che mai è parso così arido di idee.