Se è vero, come dice qualcuno, che quando chiude un giornale è una cattiva notizia per la democrazia, cosa succede quando a chiudere è invece un bar, un ristorante? Anche questa è una cattiva notizia, in fondo, ma da un punto di vista più intimo. I locali che frequentiamo sono legati ai ricordi, scenario di importanti momenti privati. Luoghi in cui tra un’ordinazione e l’altra prendiamo importanti decisioni personali o anche, più semplicemente, ce ne stiamo con lo stomaco in giulebbe, come in un romanzo di Gadda, a rimirare noi stessi nello specchio delle pupille altrui.
È di poche settimane fa la notizia della chiusura dell’unico bar di Penia, bar in cui è entrato almeno una volta chiunque abbia trascorso una breve o lunga vacanza in Val di Fassa, non fosse altro perché era l’unico della zona. Penia è al centro di un fortunato crocevia turistico, tra Canazei e la Marmolada, punto di partenza di numerosi sentieri escursionistici ad alta frequentazione sia d’estate che di inverno. La chiusura dell’unico bar di quel piccolo ma trafficatissimo paese è dunque la fine di un’istituzione. Ma non c’entrano il Covid o la crisi economica. Dopo 53 anni di attività, aperti tutti i giorni dalle 7 fino a tarda sera, i due proprietari, Lisa e Sergio, hanno deciso di concedersi finalmente un po’ di riposo.
A chiudere per stanchezza è stato anche uno degli indirizzi più celebri della ristorazione milanese, La Latteria di via San Marco. «Non abbiamo più voglia», è stata la risposta che la signora Maria, la proprietaria, ha dato a un inviato del Gambero Rosso che le chiedeva come fosse possibile che un locale sempre al completo potesse decidere di cessare le attività. La dimessa insegna si trovava poco distante dal neonato ristorante dello chef e youtuber Max Mariola, che fin dalla sua apertura ha registrato il tutto esaurito di prenotazioni. La Latteria, invece, non accettava prenotazioni da nessuno, neanche dai suoi più illustri clienti affezionati (e ne aveva: Miuccia Prada, i Trussardi, Roberto Benigni). Se volevi mangiare lì ti dovevi mettere pazientemente in coda. Ed era sempre una lunga coda. Il picco di notorietà La Latteria lo raggiunse nel novembre del 2023, un mese prima della chiusura, quando Madonna – la domenica successiva alla seconda data al Mediolanum Forum – avrebbe voluto pranzare nel locale di via San Marco, segnalato come imperdibile sulle guide turistiche oltreoceano. «La domenica siamo chiusi», si sentì rispondere, con buona pace dei privilegi dei Vip.
È invece più da “specchio dei tempi” la storia della chiusura di un altro famosissimo bar, stavolta a Roma: l’Euclide dell’omonima piazza nel cuore dei Parioli. Da locale per Vip dei tempi dell’apertura era diventato nel corso dei suoi 70 anni di attività il luogo di una frequentazione mista fatta di anziane signore di Roma Nord, liberi professionisti più o meno danarosi e «pariolini di 18 anni», come nella canzone dei Cani, quelli che fanno «le aperte coi motorini e i filmini con le quartine». Poi, negli anni precedenti la chiusura, la clientela si era fatta meno affezionata e più distratta. E il livello di servizio meno memorabile. Alcuni collocano nel 2005 l’inizio della crisi del Bar Euclide, l’anno cioè in cui gli eredi del fondatore Annibale Olivetti – che aveva aperto il locale nel 1950 – hanno ceduto la gestione ad altri. Un cambio di timone che potrebbe aver determinato il fallimento dell’attività.
Come in certi film di più o meno credibile critica sociale, in cui accoglienti librerie indipendenti vengono rimpiazzate da impersonali megastore, le mura dell’ex bar Euclide ospiteranno presto un supermercato Esselunga. Ad apparirci inspiegabile è l’idea che anche i locali redditizi, nonostante i loro ricavi, non siano al riparo dalla prospettiva della bancarotta. Il 28 settembre del 2023 ha chiuso la Signature Room di Chicago, il ristorante panoramico per antonomasia. I suoi tavoli – al 95° piano del civico 875 della North Michigan Avenue, nel grattacielo che fino al 2018 era noto come John Hancock Center – si affacciavano sul sontuoso skyline della città, dalle ricche vie che si aprono intorno al Magnificent Mile fino alle rive del lago Michigan. Aveva aperto nel 1970, con il nome di 95th Restaurant, e poi, dopo aver cambiato nome in Signature Room nel 1993, aveva attraversato una serie di cambi di gestione e di alterna fortuna nel gradimento dei suoi clienti. Per diversi anni, sul finire degli anni Novanta, era un nome fisso nella classifica degli America’s Top Tables della rivista Gourmet. E anche quando il livello della cucina non era eccellente (o il prezzo delle sue leggendarie bistecche giudicato troppo esoso), residenti e turisti non rinunciavano a prenotare un tavolo alla Signature Room, anche solo per la vista spettacolare (e per i suoi bagni, anche questi dotati di finestre panoramiche).
Ma dal settembre del 2023, il sito del ristorante non presenta altro che la comunicazione della chiusura definitiva del locale, firmata da Rick Roman e Nick Pyknis, gli ultimi proprietari. Nel messaggio – a suo modo toccante, con la rievocazione delle tante serate memorabili trascorse da clienti provenienti da ogni parte del mondo – i due individuano nella pandemia la causa principale del fallimento del loro business. «Abbiamo dovuto affrontare gravi difficoltà economiche e le sfide sono state più grandi del previsto – scrivono – Questi fattori, al di là del nostro controllo, non ci hanno lasciato altra scelta che chiudere i battenti.»
Fa abbastanza impressione pensare che il cataclisma al quale sono sopravvissuti anonimi e polverosi esercizi di South Side o dei quartieri meno sfolgoranti tra Argyle e Lincoln Park ha invece piegato le gambe del solido potenziale commerciale della Signature Room. Ma se il Covid è la risposta alla domanda “Perché la Signature Room ha chiuso?” resta senza risposta un’altra domanda: “Perché nessuno rileva l’attività?”. Possibile che gli affitti imposti dalla Hearn Co., proprietaria del grattacielo, siano così alti da scoraggiare nuovi imprenditori pronti ad accettare la sfida?
La riapertura però non è l’unica strada possibile per far risorgere un locale dopo il fallimento. Si può anche cercare di capitalizzare la fama di un luogo pur mantenendo abbassate le saracinesche. È il caso del mitico 21 di New York, nato in pieno proibizionismo quando non era che uno tra i mille speakeasy della città (ovvero i locali dove gli alcolici venivano serviti clandestinamente) e poi cresciuto fino a diventare uno degli indirizzi più esclusivi. Negli anni Cinquanta i suoi clienti erano Marilyn Monroe, Humphrey Bogart, il presidente Nixon, Truman Capote, David Niven. Nel corso del tempo le sue cantine hanno ospitato le collezioni private di vini di pregio appartenenti a JFK, Elizabeth Taylor, Sophia Loren e Ernest Hemingway.
Jack Kreindler e Charlie Berns, i due fondatori, erano collezionisti d’arte e cimeli. Dal soffitto del 21 pendevano grappoli di oggetti e giocattoli vintage. La grande cancellata in ferro battuto che per novanta anni ha accolto star e clienti comuni proveniva dalla prima incarnazione del locale, quando il 21 si chiamava ancora The Puncheon, e fu trasferita dai precedenti locali sulla 49ma che Jack e Charlie dovettero abbandonare per fare spazio alla costruzione del Rockefeller Center. Nella nuova sede sulla 52ma il 21 divenne il punto di riferimento dei migliori frequentatori di locali della città.
La fama del 21 andava oltre la realtà e filtrava perfino nelle creazioni artistiche: non solo lo scrittore Truman Capote cenava qui, ma lo faceva perfino il suo personaggio più noto, l’incantevole e impossibile Holly Golightly, nelle pagine del romanzo Colazione da Tiffany. Ed è con un Just Eat ante litteram che nel film La finestra sul cortile Grace Kelly porta del cibo a domicilio a James Stewart proprio dal 21. Eppure anche questo pezzo di storia newyorkese ha dovuto soccombere a causa della pandemia. L’ultimo proprietario del 21, però – la Belmont Ltd., marchio inglese del gruppo Lvmh attivo nel settore del turismo di lusso – ha voluto conservarne comunque il ricordo con un sito dedicato, 21club.com, che ripercorre i vecchi fasti attraverso testi e foto e dal quale è possibile accedere a una sobria sezione per lo shopping online e acquistare così il merchandise del locale a prezzi tutto sommato accessibili (l’oggetto che costa di più è un portagioie in smalto a 250 dollari, quello che costa di meno un set di sottobicchieri di cartone a 15 dollari).
«Although our doors are closed, our legacy remains», recita la scritta in homepage del sito. Le nostre porte sono chiuse, ma la nostra eredità rimane. Certo una t-shirt o un cappellino con il logo 21 possono essere una magra consolazione per chi non potrà più frequentare quel locale. Ma forse un sito in memoriam è l’unica forma di sopravvivenza possibile per un posto del genere, per tenere vivo il ricordo di quell’età dell’oro in cui potevi bere un Old Fashioned accanto a Jackie Onassis e Frank Sinatra.