In questo momento negli Stati Uniti si stanno verificando diverse catastrofi: c’è la scia di morte lasciata in Florida dall’uragano Milton; c’è un candidato alla presidenza che mette apertamente e continuamente in discussioni i valori sui quali si fonda la civiltà umana; e poi ci sono gli incassi al botteghino di Joker: Folie à Deux. Sono passate due settimane dall’uscita in sala del film: nessuno si aspettava incassasse un miliardo di dollari, ma quello che è successo non era considerato possibile nemmeno nelle previsioni degli apocalittici.
Spiegazioni ancora non ce ne sono e sarà difficile trovarne: fino a lunedì 30 settembre, per Joker: Folie à Deux era previsto un incasso di circa 100 milioni di dollari entro il primo fine settimana di programmazione americana, cioè entro lunedì 7 ottobre. Alla fine il film ne ha incassati meno della metà: 37 milioni, quasi 38. Nemmeno Morbius, il cinecomic diventato zimbello, era andato così male. Nella seconda settimana di programmazione le cose sono andate pure peggio: Joker: Folie à Deux non è andato a vederlo praticamente nessuno e Warner Bros., che il film lo ha prodotto, si è già rassegnata a una perdita di almeno 200 milioni di dollari. È la stessa cifra che il regista Todd Phillips ha speso per girarlo. Prendi i soldi e scappa, si potrebbe dire: mentre uscivano le prime, sconcertate recensioni di Joker: Folie à Deux (uno dei pochissimi film che è riuscito a mettere d’accordo la metà critica e quella popolare di Rotten Tomatoes: ha fatto schifo a entrambe, e da subito), il regista si affrettava a dire che lui con Joker, con Gotham, con Warner Bros. aveva chiuso per sempre, grazie e arrivederci.
Se è vero che fenomeni come Joker: Folie à Deux non hanno ancora una spiegazione scientifica, è vero anche che almeno un nome ce l’hanno: flopbuster, orecchiabile crasi tra flop e blockbuster. L’etimologia della parola è incerta, forse non appartiene nemmeno all’inglese americano ma a quello britannico: pare sia stata usata la prima volta nel 1986 dal critico inglese Jim Keay in una recensione della dimenticatissima miniserie La figlia di Mistral pubblicata sull’Evening Post di Bristol. Etimologia a parte, flopbuster è certamente la parola che meglio descrive lo stato delle cose di Hollywood negli ultimi quattro anni almeno, degli ultimi due in particolare.
Trattandosi di film che quasi nessuno ha visto, è possibile che la loro esistenza non abbia lasciato traccia nella memoria collettiva e che quindi la gravità della situazione stia sfuggendo. Quindi, un elenco: The Marvels, The Flash, Indiana Jones e il quadrante del destino, Wish, La casa dei fantasmi, Renfield, Shazam! Furia degli dei, Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri, The Covenant, 65. Questo è un elenco essenziale – vale a dire che questi sono stati dei fiaschi indiscutibili – di tutti i film usciti nel 2023 con la responsabilità di salvare Hollywood da un anno che era già horribilis prima di loro. Tutti film con budget da almeno 200 milioni di dollari (proprio come Joker: Folie à Deux, segno che di bolla vera e propria si può parlare, almeno per quanto riguarda i costi di produzione) e che, quindi, per fare pari e patta dovevano incassarne due volte e mezza tanti. Il successo commerciale di questi film-che-dovrebbero-essere-blockbuster si calcola così: fatte tante le spese di produzioni (200 milioni), bisogna aggiungere costi che ammontano più o meno alla stessa cifra tra promozione, distribuzione, interessi sui prestiti, varie ed eventuali. Quindi, è per questo che un film come Mission Impossibile – Dead Reckoning – Parte uno è finito sia nella classifica dei film che hanno incassato di più nel 2023 (al decimo posto, con circa 550 milioni di dollari) che in quella dei flopbuster: perché la produzione soltanto del film è costata 300 milioni di dollari. 300 + 300 = 600. 550 – 600 = -50. Il sequel di Dead Reckoning – Parte uno è stato rimandato a data da destinarsi, uscirà chissà quando ma certamente con un titolo diverso (speriamo più corto). Ci sono molti modi di scrivere, leggere e dire flopbuster.
E questo era il 2023. Nel registro dei fiaschi di quest’anno abbiamo invece (limitandoci sempre e soltanto a film con un budget di produzione da almeno 200 milioni di dollari) Madame Web, Ghostbusters – Minaccia glaciale, The Fall Guy, Furiosa, Fly Me to the Moon, Back to Black, Argylle, di Joker: Folie à Deux abbiamo detto, di Megalopolis diremo da domani ma sappiamo già e comunque quella è una storia diversa: i soldi persi in questo caso sono soldi di Francis Ford Coppola (120 milioni secondo le stime al ribasso), ma a giudicare dalle sue intenzioni di fare almeno un altro film si direbbe che il regista di vigneti da vendere ne abbia ancora, grandi e fruttuosi abbastanza da finanziare un altro flopbuster.
Certo è che tutti questi fiaschi, così diversi ma così simili dove conta (il portafoglio) chiaramente dimostrano la crisi di un modello. Che Hollywood stia passando anni tra i peggiori della sua storia lo sappiamo – ne abbiamo anche scritto nel nuovo numero di Rivista Studio, “C’era una volta l’America” – ma sappiamo anche che, nemmeno nei precedenti momenti peggiori della sua storia, Hollywood è arrivata a mettere in discussione il suo business model, cioè se stessa. Si tratta fondamentalmente di una derivazione della trickle down economics reaganiana: i tantissimi soldi guadagnati da pochissimi film scendono verso il basso, come pioggerellina, a irrigare il campo dei registi esordienti e dei film indipendenti, campo nel quale poi, forse, magari, un giorno si raccoglieranno frutti da consumare al banchetto delle major, in un circolo virtuoso che ha fatto il cinema americano del ‘900 e degli anni Duemila.
Forse è troppo presto per dirlo, ma il circolo si è interrotto, la formula del successo ha smesso di funzionare, il modello di business si sta dimostrando fallimentare. Nessuna certezza sembra essere rimasta tale, intatta, alla fine di questo brutale quadriennio cominciato con una pandemia, proseguito con uno sciopero doppio – sceneggiatori prima, attori poi – una crisi occupazionale dei lavoratori dell’industria dell’intrattenimento, una stretta finanziaria dovuta all’innalzamento dei tassi d’interesse deciso dalla Fed (Hollywood, come tutte le grandi industrie, campa a debito, e nel momento in cui i soldi degli altri diventano più difficili da avere in prestito tutti i capitani d’industria si ricordano di quanto è brutto rischiare i soldi propri), un generale e generico cambiamento del pubblico, i cui interessi e disinteressi, le cui propensioni al consumo e modalità di fruizione sono diventate inconoscibili.
È questo il cruccio che tiene svegli tutti i produttori hollywoodiani oggi: ma che diavolo bisogna fare per convincere questa gente ad andare al cinema? Se un film con protagonisti due premi Oscar come Joaquin Phoenix e Lady Gaga è un fiasco, significa che lo star power – quella forza gravitazionale che attraeva lo spettatore verso qualsiasi film con protagonista l’attore prediletto – non funziona più. Ma niente di quello che si sperava avrebbe contribuito a salvare il cinema e a portarlo nel Terzo millennio in realtà ha funzionato. Le piattaforme streaming sono passate dalla Grande disiscrizione alla Grande indifferenza al Grande fastidio in meno di un lustro, le distribuzioni “miste” – sala prima e tutto il resto poco dopo – le abbiamo provate e accantonate, gli universi condivisi dovevano durare mille anni (Mcu, Dceu, MonsterVerse, Dark Universe, etc.) e invece già collassano dopo un decennio, sono stati un fortunatissimo esperimento più che l’elaborazione di un modello nuovo.
Che fare? Per come è fatta Hollywood adesso – un oligopolio dominato da cinque multinazionali too big too fail, competizione poca e quindi innovazione scarsa, propensione al rischio prossima allo zero, forza dell’abitudine che scorre potentissima – si farà more of the same. È la ragione, questa, per la quale la metà del Barbenheimer che si è voluta prendere a modello è stata quella di Barbie e non di Oppenheimer: perché su Oppenheimer non si può costruire un universo narrativo con film dedicati a tutti i partecipanti al progetto Manhattan che poi si assemblano nel film-evento come fossero gli Avengers della fisica quantistica, né quel film permetteva di stringere accordi con Lego per costruire set ispirati alla base di Los Alamos. More of the same, dunque. E infatti, il film del 2025 che Hollywood attende di più è Captain America: Brave New World. È il 35esimo film del Marvel Cinematic Universe, il quarto della saga di Capitan America, ed è costato, secondo le indiscrezioni, 350 milioni di dollari.