La semagludite è una rivoluzione per l’industria alimentare e farmaceutica. Ma cosa succede alla considerazione che abbiamo del nostro corpo?
«È il 2025 e stiamo ancora prendendo in giro le persone per la loro corporatura», commenta un utente sotto il video TikTok di @demi_jane1, content creator che, sebbene non abbia inventato il trend legato al “chubby filter”, lo ha quantomeno reso popolare attirando a sé una pioggia di critiche. Con ben oltre dieci milioni di visualizzazioni, la sua immagine viene trasformata tramite una transizione di CapCut in lineamenti arrotondati dall’intelligenza artificiale, accompagnata dalla didascalia «Se questo non mi spaventa abbastanza per insistere con la palestra, non so cosa lo farà», emoji sarcastici annessi. Scorrendo i video dell’ultimo – problematico – filtro di TikTok si potrebbe incappare anche in una seconda versione con cui però si ottengono i ritocchi opposti, un filtro dimagrante quindi, che parte però dalle stesse premesse e giunge alle stesse conclusioni: magro è meglio, magro è più bello, magro è più sano. Tutti messaggi largamente promossi dal cosiddetto “skinny-tok”, una sotto-categoria della piattaforma dove vengono esaltati corpi (molto) magri, spacciando l’ossessione per il peso e la riduzione del numero dei pasti come ispirazione fitness o benessere. Un po’ l’evoluzione dell’hashtag #thinspo (che stava, tradotto un po’ grossolanamente, per “ispirazione per restare magri”) che ha spopolato per anni su Tumblr e Instagram.
Da #proana a “skinny-tok”
Che i social media contribuiscano a plasmare standard di bellezza irraggiungibili non è certo un fenomeno recente. Ne abbiamo tracciato i contorni contemporanei anche nell’ultimo numero di Rivista Studio, Ultracorpi, fra Ozempic e beauty routine che impattano anche sulla libido. E se TikTok prova a contenere, infruttuosamente, i contenuti più violenti, su X la moderazione social è stata volutamente abbandonata, come ha spiegato Kaitlyn Tiffany sull’Atlantic. Nelle mani lascive di Elon Musk vengono, così, promossi messaggi che inneggiano all’anoressia e che amplificano a loro volta una paura del grasso che non se n’è mai andata. Basta pensare che nel 2018 Instagram aveva annunciato di voler stoppare i contenuti #proana – l’hashtag sotto cui si raccoglievano i contenuti più estremi che inneggiano all’anoressia – mettendo un annuncio pop-up che spuntava a chiunque decidesse di digitare quelle parole, nel tentativo di intercettare i profili che frequentavano quegli angoli di internet e che lì avevano trovato la loro “community”. Erano altri tempi, il dibattito pubblico stava provando a mettere in discussione i canoni di bellezza standard, una discussione che, come sappiamo, è evaporata. Quello che vediamo riflesso sui social non è, però, casuale: è una proiezione di ciò che la società valorizza e di ciò che sceglie di ignorare. Ed è proprio questa distinzione a rendere il controllo sui corpi più pervasivo. Il “chubby filter” di TikTok gioca infatti con pregiudizi sociali profondamente radicati, perpetuando la dannosa convinzione che più un corpo è formoso, più diventa intrinsecamente indesiderabile o comico. E alimenta una cultura più ampia di disinformazione in cui si presume che grasso equivalga necessariamente a cattiva salute e la magrezza, invece, sempre virtuosa. Senza considerare che, chi ha navigato nelle complesse acque dell’immagine corporea fra disturbi alimentari e rapporti complicati con la bilancia, potrebbe vedersi riaprire cicatrici di ferite che hanno richiesto instancabili cure per guarire.
Il miraggio della body positivity
Il successo di questo filtro non è un caso isolato, ma un’ulteriore dimostrazione di come la grassofobia sia ancora presente. Anche le curve che hanno reso famosa la famiglia Kardashian si sono ora asciugate, è arrivata la linea Skims che alcune di quelle curve provava a riconsegnarle, finte, ai corpi che vogliono essere sempre più magri. Ucciso il movimento di un corpo naturale che viene ora controllato dallo “shapewear”, quello che per lungo tempo abbiamo definito “intimo contenitivo” ma portato agli estremi, muore anche il desiderio. Ne ha scritto recentemente Ismene Ormonde su Haloscope, che ha sottolineato l’assurdità del marketing di Skims: reggiseni con i capezzoli finti a vista e body che aggiungono le curve sul sedere mandano infatti il messaggio che le rotondità vanno bene solo se sono orpelli che si possono aggiungere e togliere a piacimento. Anche le sfilate per la moda donna da poco concluse hanno continuato a rafforzare quell’idea: i corpi plus-size sono una rarità sulle passerelle, come sancisce l’ultimo report di Vogue Business sulla size inclusivity. Se già all’apice del movimento sulla body positivity l’industria non rispondeva abbastanza velocemente, con l’avvento della semaglutide (il principio attivo di quella serie di farmaci che chiamiamo comunemente Ozempic) i numeri attorno alla presenza di corpi diversi nell’ultima stagione di sfilate sono stati vergognosamente bassi e in ulteriore decrescita rispetto al passato. Le taglie plus-size sono state soltanto lo 0,3 per cento dei corpi in passerella in totale, con una Milano che ha scelto di cancellarne l’esistenza (l’unica a differenza di New York, Londra e Parigi), mentre le mid-size si fermano al 2 per cento.
Le curve sono ok, purché siano finte
A New York e Londra, nello specifico, mancavano dal calendario alcuni dei nomi che generalmente portano più taglie diverse in passerella mentre Milano e Parigi hanno scatenato accese discussioni su alcune sfilate e l’idea di femminilità che proponevano, ma rimangono le due città dove la size inclusivity fa più fatica ad attecchire. A Milano, è stata la sfilata di Prada a proporre un’idea di femminilità controtendenza: Miuccia Prada e Raf Simons hanno parlato di una donna che non aderisce più ai canoni che la società impone, si libera delle aspettative degli altri: gli abiti che indossa sono perciò lontani dal corpo, spiegazzati, non donanti secondo l’immaginario collettivo. A Parigi, invece, le curve si sono materializzate in passerella ma su corpi visibilmente magri, non lasciando nulla alla curiosità che invece si cercava a Milano. Pieter Mulier ha ridisegnato larghi fianchi firmati Alaïa, proprio come Duran Lantink che, a fine sfilata, ha anche lasciato che un finto seno di taglia importante sobbalzasse su un corpo (magro) maschile. Ha aumentato alcuni precisi volumi, in forma più “quieta”, persino Phoebe Philo nel suo ultimo lookbook, una di quelle creative che ci aveva abituati a uno sguardo diverso sul vestire un corpo femminile, quando Celine portava ancora l’accento sulla seconda lettera. E, prima ancora, c’era stata la collezione couture Primavera Estate 2024 di Maison Margiela, con le sue bambole prostatiche immaginate da John Galliano.
«Le curve finte sono ovviamente più facili da controllare. Vengono aggiunte e vengono tolte esattamente dove è necessario. E questo elemento di controllo è importante quando si tratta della visione creativa di un designer», ha scritto Anastasia Vartanian su Polyester. La passerella si trasforma così in un metateatro pirandelliano: peccato però non elimini le barriere tra palcoscenico e platea ma, anzi, le rinforzi. Anziché esser rappresentate in maniera diretta come parte effettiva della realtà, le curve si trasformano quindi in un’estetica performativa e temporanea, un’ennesima forma di controllo sul corpo. Sono qualcosa che può essere rimosso, aggiunto, non qualcosa che già esiste. Finché le curve saranno accettate solo come un elemento teatrale su corpi magri e non come parte della vita quotidiana, l’illusione dell’inclusività resterà solo una facciata.

Finita l’era dei volti gonfi di filler, della body positivity e dei tatuaggi, sono tornate magrezza, facce scavate e corpi puliti, insieme a una quantità incalcolabile di routine, strumenti e prodotti che, ancora una volta, spingono grandi e piccoli verso modelli irraggiungibili di perfezione.