Nel 2015 la moda è morta. Almeno secondo la guru in tunica Li Edelkoort. In primavera la trend forecaster più pagata al mondo aveva pubblicato il suo Anti_Fashion Manifesto, parola che non si sentiva dal 1995, quando Raf era andato in Corsica a scrivere appunto Manifesto. Anche Li doveva avere molta rabbia dentro e ne ha vergato uno che, come ogni manifesto che si rispetti, era provocatorio, anti-pop e a scadenza ravvicinata. Una missiva in forma di decalogo da nicchie recondite e minimaliste contro il fast-fashion che impoverisce il cuore e il Natale, ma non le tasche. Secondo Li, in un passaggio ad alto tasso di lirismo, «i prezzi (bassi del fast-fashion) ci obbligano a gettare via i vestiti come preservativi, dimenticati ancor prima di essere amati e preservati, e insegnano che la moda non ha valore».
I designer, sostiene il manifesto, invece quelli sì che andrebbero mandati al macero, assieme al culto dell’io che fa così 900’s. E il marketing? Una «perversione che ha distrutto le industrie della moda». L’effetto moltiplicatore del plurale, à la Gremlins, per cui la moda diventa «i vestiti», l’industria «le industrie», riporta l’illusione alla realtà nuda e cruda del «vestito» cucito, la volatilità delle tendenze alla gravità del tessuto, rimanda a tutto un mondo artigianale del buon saper fare, un mondo in cui il vestito non lo scegli per partecipare a una fantasia di seduzione e celebrità. Come se i consumatori, persi in questa utopia di stoffa senza etichette, la gonna la scegliessero davvero alla fine di una serie di panegirici sulla lunghezza dell’orlo, un mondo di elitismo sartoriale che ricorda certi, stupendi, sarti massoni napoletani. Sarà.
Non ce ne vogliano i bryanboys ma il 2015 non gli è appartenuto. Il 2015 sarà ricordato come l’anno di Gucci, The Gucci Year. L’anno in cui Gucci ha definitivamente gettato la maschera sexy forgiata da Tom Ford per abbracciare lo storytelling totale, come la carta da parati che tappezza le vetrine, gli abiti, le borse e le pubblicità di Gucci. La faccia di questo terremoto è Alessandro Michele, il semi-sconosciuto designer d’accessori che nel giro di una collezione diventa l’incarnazione del nuovo che la moda dispera di trovare, inventore di una nuova immagine di femminilità ispirata al contemporaneo. La spericolatezza dell’operazione però è del CEO Marco Bizzarri, a dimostrazione che il business migliore è un’arte. E così succede che la moda non muore e se ne va in giro in babbucce pelose, camicie col fiocco e pizzi evanescenti che sfidano a “liberare i capezzoli” anche d’inverno, nella presupposta equivalenza di petto femminile e maschile.
Il 2015 è stato anche l’anno delle contaminazioni giocose, dell’apertura all’ironia. Valentino, marchio elegante e romantico, ispirato dalla romanità sorniona ha trasformato la sfilata autunno/inverno 2016 in un red carpet e i giornalisti in paparazzi d’assalto, con Ben Stiller e Clive Owen, protagonisti di Zoolander 2, a incarnare il concetto che l’abito non basta, ci vuole attitudine, un selfie stick e Roma, se possibile. Olivier Rousteing, tra l’altro, grazie alla posa “blue steel” di Zoolander, ha trasformato i suoi zigomi nel logo subliminale di Balmain, il marchio più social della storia della moda di cui è direttore creativo, e ha generato onde di consumismo sfrenato. A novembre, all’uscita di Balmain x H&M, o H&M x Balmain, come suggerisce Silvia Schirinzi, c’è chi è rimasto schiacciato nella calca e su Ebay si vendevano anche i sacchetti di plastica della collezione.
«La creatività dei designer è compromessa, i giornalisti sono come svuotati»
In quest’anno che sta per finire, nell’arduo tentativo di gestire il tempo, la moda ha abbracciato il racconto, il fascino perverso delle parole, e così ha elevato Joan Didion a icona di stile. Da quando Phoebe Philo, chez Céline, l’ha stampata sulle borse non c’è articolo che non cominci con una sua citazione. Ma la moda nel 2015 è uscita dalle biblioteche, per strada, ha inscenato un mondo nuovo, ipervisibile e iperconnesso, popolato da freak, transgender, corpi anomali, un mondo in cui c’è posto per tutti. L’ha fatto con un inedito senso dell’urgenza, infiniti appelli alla sostenibilità, e la paura di implodere. Livia Giuggioli, in arte Livia Firth, moglie dell’attore Colin Firth, fondatrice di Green Carpet Challenge e direttore creativo di Eco-Age, a WWD tratteggiava scenari apocalittici: «Troppi show, troppe collezioni, troppi look, stili, pressione. Il risultato? La creatività dei designer è compromessa, i giornalisti sono come svuotati».
Sarà, ma finché c’è Karl Lagerfeld che disegna 17 collezioni all’anno, un consumatore del Wyoming che le compra online, e la libertà di cambiare lavoro, c’è moda. Raf Simons, per esempio, vorrebbe fare il ceramista. Ma come ha scritto Cathy Horyn per System magazine: «Don’t do pottery, Raf».