Cultura | Giornalismo
New Yorker, cent’anni di snobbitudine
Il 21 febbraio del 1925 arrivava in edicola il primo numero della rivista che avrebbe cambiato la cultura americana prima e mondiale poi, mantenendo sempre l'indispensabile puzza sotto il naso.
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In una puntata dei Griffin il cane antropomorfo Brian scrive un reportage per un giornale locale che ha un discreto successo e viene chiamato a lavorare al New Yorker. Arrivato negli uffici fa per andare in bagno e scopre che dietro le porte ci sono solo delle eleganti poltrone. «Noi al New Yorker non abbiamo l’ano», gli dice uno degli editor. L’immagine del giornale snob, dove anche avere l’ano diventa volgare, resta anche dopo un secolo dal primo numero, anche se la forma di snobismo della rivista è cambiata col tempo. Quando cento anni fa Harold Ross, insieme alla moglie Jane Grant, decide di fondare una rivista un po’ umoristica targhettizzata per l’élite di Manhattan, dice apertamente che «non sarà per la vecchietta di Dubuque», cittadina rurale dell’Iowa.
«Il New Yorker sarà una riflessione, in forma scritta e per immagini, della vita metropolitana» e avrà bisogno di un certo grado di “enlightenment”, intuizione e illuminazione, da parte del lettore (l’opposto dello “spiegato bene” del Post). Insomma, questa pubblicazione non cercherà l’appeal di un’estrema “casalinga di Voghera”, di un “contadino di Poggio Versezio” del Midwest, ma di chi apprezza un certo senso dell’umorismo e può dare per scontato di chi si parla. La copertina: un dandy dall’aria aristocratica con la tuba in testa che ispeziona una farfalla attraverso il suo monocolo e che verrà chiamato Eustace Tilley.
Osservare il mondo attraverso la lente dello snobismo. Allo stesso tempo un’auto-presa in giro della snobberia della redazione e del milieu da cui nasce l’idea, gruppetto di chi ben si gode l’età del jazz fitzgeraldiana, tra isole private nel Vermont e giochi di parole da fare a tavola o partitine a croquet tra umoristi dell’Harvard Lampoon, sceneggiatori di Broadway, Harpo Marx e Dorothy Parker. Vero parvenue conscio, Ross sapeva bene cosa fosse lo snobismo, e ci giocava, allo stesso tempo terrorizzato dal fare errori che mostrassero la sua origine di figlio di minatore, e quindi maniacale ossessione per grammatica, virgole, termini precisi anche se non facilmente comprensibili da tutti. Così maniacale da rifiutare i primi racconti di un giovane come J.D. Salinger.
Col tempo il meglio della letteratura, certo, con Il nuotatore di John Cheever, ma anche i reportage di Truman Capote che diventeranno A sangue freddo, oggi benchmark della narrative non fiction, fino a Jonathan Safran-Foer e Sally Rooney, e c’è chi forse in questo vede un declino. E poi Hannah Arendt col suo reporting dal processo di Eichmann fino a Ronan Farrow con le inchieste che scatenano il #MeToo. Le copertine di Art Spiegelman e Sempé e Adrian Tomine da appiccicare alle pareti e da trasformare nel grande processo di manifesto provincialismo europeo in The Milaneser o The Ferrareser o The Spezziner.
Senza rivista, senza contenuti, solo una copertina, che è in fondo quello che è per molti il New Yorker, oggetto di arredamento indicatore di appartenenza. Ma seppur senza cedimento alle fotografie, sempre più Obama e poi Trump, sulle cover, sempre più rivista di attualità mondiale (l’acquisizione da parte di Conde Nast doveva pur avere delle conseguenze), dove i celebri cartoon ogni tanto rischiano di diventare virali nelle bolle degli “editoriali”. Da bollettino dell’Upper East Side, piano piano il New Yorker diventa un periodico per tutto il mondo, data anche una certa scolarizzazione al di fuori delle prep school del New England. Siccome New York è il centro del mondo, il “talk of the town” interessa a tutti, anche solo in modo aspirazionale. Come se la Gazzetta di Reggio, il Tirreno o L’Unione Sarda diventassero, col tempo, i più ammirati quotidiani letti nelle lounge degli aeroporti di Riad.
L’evoluzione del New Yorker in questo secolo è l’evoluzione dello snobbismo, prima soprattutto di classe e di scolarizzazione, e poi basato – come tutto in politica – sul posizionamento di diritti e le libertà civili. Come scriveva anni fa Christian Rocca, «oggi il New Yorker è la rappresentazione cartacea delle teorie sulla superiorità antropologica della sinistra». Sinistra americana, cioè liberal, non certo Jacobin, un po’ Biden e un po’ Sanders. E quindi sempre meno raffinatissimo, perché non si può fare la rivoluzione con il monocolo – giusto a suon di fact-checking.
E così da notiziario di Park Avenue a chiaro posizionamento nel dibattito politico (non un caso che una rivista engagé come Internazionale lo prediliga nella sua selezione da tradurre) tutto esploso negli anni di George W. Bush con inchieste su guerra in Iraq e Patriot Act, tutto sempre meno Central Park-centrico. E infatti certo, fa sempre chic avere il New Yorker sul coffee table, o citare un articolo letto lì, ma sempre meno per commentari a lungo respiro sullo stato del mondo – cosa che ad esempio oggi fa di più l’Atlantic – e più su ben scritti e acuti racconti della politica, profili o spiegazioni più precise su cosa sta succedendo nel mondo.
Il New Yorker come bandiera anti-populista trova l’apice nel 2014. La rivista, obbligata a mettere un paywall sul sito per sopravvivere, inizia a regalare con gli abbonamenti una tote bag, una sportina di stoffa con lo skyline e la sagoma di Eustace Tilley. La cosa diventa gigante, soprattutto nel 2017, dopo la prima elezione di Donald Trump, quando la borsetta a tracolla dove infilare Mac e borraccia diventa uno stendardo della resistenza all’atteggiamento Maga. Ora più che elitario o elitista o snob, il New Yorker è oggetto specchio di un’affiliazione più valoriale che non stilistica, seppur le due cose vadano di pari passo, ma certamente non geografica.
Accuratezza e fact-checking, dice oggi il capo David Remnick, sono gli ingredienti principali – e quindi non più quel «gaiety, wit and satire», che invece elencava Ross come ingredienti fondamentali. Sempre meno sbarazzino e sempre più ditino alzato. E Remnick ci tiene a dire che il giornale ha più lettori in California rispetto a New York. Secondo lui, per Ross la vecchietta di Dubuque era anche quella del Queens o di Los Angeles, oggi non più. Oggi professionisti e studenti che possono permettersi di spendere 9,99 in edicola o che vogliono sbandierare la tote ai giardini di Porta Venezia.
E se la tote fa sopravvivere, anche lo scrolling vuole la sua parte, e quindi anche qui, come per tutti i media che non vogliono chiudere, gamification, con giochi tipo “indovina di che anno è questa vignetta”. 1 milione e 2 di abbonati, in gran parte lettori da iPhone, e quindi cinque podcast e sempre più video (e per il centenario anche un documentario su Netflix). Nel 1999 Renata Adler, che della rivista era stata staff writer per vent’anni, scrive un libro che si intitola Gone – The Last Days of the New Yorker in cui dice che il New Yorker è morto. La sua grandezza, capace di «creare il pezzo definitivo su un certo tema» era data dalla curiosità e dalle idiosincrasie degli editor e degli artisti chiamati a contribuire, dice Adler, oggi è data dal seguire il gusto del pubblico, aggiungendo: «Forse i magazine hanno un loro ciclo di vita e morte naturale».