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Cattiveria facile facile

Non essere cattivo di Caligari, un film ambientato nel 1995 che avrebbe avuto senso se fosse uscito quell'anno. Eppure tutti ne parlano bene.

17 Settembre 2015

C’è una scena, verso la fine di Non essere cattivo, che dice tutto quello che sarebbe potuto essere questo film e invece non è stato. L’integerrima Linda, che aveva convinto il suo uomo a lasciare il peccato («Tròvate ‘na donna» diceva Vittorio a Cesare, come se la salvezza non si potesse trovare in sé), chiede a Vittorio: «Ti basta quello che abbiamo?». A lei no, si capisce.

E in questa scelta di non accontentarsi più della famiglia, del lavoro, dell’onestà, si abbozza un passo avanti rispetto alle narrazioni su un mondo, un ambito socio-culturale, all’interno dei quali Non essere cattivo si inscrive. Viene posto un elemento di conflittualità laddove tutto sembra pacificato. Si allude all’obiettivo possibile che era stato, a un certo punto, l’imborghesimento delle borgate (per usare due termini impropri ma chiari). Purtroppo quella scena arriva tardi e non ha evoluzione. Anzi, diventa incongrua alla luce del finale conciliatorio, facile facile, che vigliaccamente scarica le responsabilità sul futuro e fa sentire tutti più sollevati.

Il finale è il momento più basso di un film che era stato, nel paio d’ore precedenti, soltanto vecchio. Un film ambientato nel 1995 che avrebbe senso se fosse uscito nel 1995, perché ha una profondità d’analisi sui margini che è rimasta ad allora. Lo dico da una posizione lontana dal pauperismo di Goffredo Fofi, che su Internazionale ha esaltato la «straziata pietà» verso questi personaggi. Lo dico con il rispetto che si deve a un film uscito postumo, che ha pagato con anni e difficoltà il dazio di non essere il solito, piatto dramma d’interni borghesi.

Non essere cattivo conosce tutti i riferimenti che deve conoscere. Si diverte a citare e autocitare di continuo, continui omaggi. Il problema è che sulle citazioni e gli omaggi non si costruisce granché. Quei film li abbiamo visti, quei libri li abbiamo letti, e sentiamo compiacimento a cogliere il riferimento, d’accordo, e poi?

Nei vent’anni che ci separano da quel tempo, sono successe delle cose. In Italia, nelle periferie, nelle narrazioni sulle periferie. Limitandomi a Roma, c’è stato Romanzo criminale, c’è stato Walter Siti, e Sacro G.R.A. ha vinto il festival di Venezia. Soprattutto sono cambiati i marginali che in quelle periferie ci vivono. Forse non ha molto senso fare un confronto con la Francia. Ma se nel 1995 è uscito L’odio, vent’anni dopo arriva Bande de filles con la sua scelta estetizzante e la complessità della sua protagonista. In mezzo tra i due film c’è stato La schivata, per dire.

Fino a un certo punto, Non essere cattivo tiene lì. Lo fa con i fuochi d’artificio: le botte, la droga, gli urli in romanaccio, gli aforismi. E ci si diverte – immagino che fuori Roma l’elemento esotico diverta ancora di più. Il film tiene lì con la recitazione di due bravissimi attori, spinti troppo spesso sopra le righe – probabilmente per tenere su l’attenzione e distoglierla da quello che non c’è intorno. Bum, pugni, bim, Playboy e fragoline, bam, pompini, e le macchine che corrono e le rapine eccetera. Il problema è che abbiamo già visto tutto. Il problema è che non si va avanti di un centimetro, o di un giorno. Amore tossico è diventato un film di culto, perché è il documento di un’umanità post-pasoliniana e di un periodo storico cruciale. Allo stesso modo, l’ambientazione di Romanzo criminale coincide con la cerniera che chiudeva un’epoca e ne apriva un’altra. Il 1995, invece, cosa rappresenta? Non si capisce. L’alba del berlusconismo, no, vi prego.

In un momento di grande tensione Linda e Vittorio, stravolti, disperatamente avvinghiati tra loro, e incastrati in un angolo del bagno, buttati accanto al cesso, si gridano delle cose, e lei fuori di sé «Mi avevi detto che non l’avresti fatto più». Come se quel personaggio potesse complicarsi la vita, in quel momento, nella correttezza di un condizionale, invece di dire: «Mi avevi detto che non lo facevi più». Pignolerie, inezie, si dirà. Oppure dettagli, quelli che fanno grandi o piccole le cose. Di passaggi inverosimili ce ne sono parecchi. La forzatura con cui si costringe Cesare a raccontarci la storia di sua sorella e sua nipote, fingendo di raccontarla a Vittorio (che la conosce), in quel momento e in quel modo. Oppure il secondo incontro fra Linda e Vittorio, a casa di lei, un caffè offerto senza ragione. O ancora l’onnipresenza della polizia, puntuale e tempestiva come non si immaginerebbe neanche sotto botta.

A un certo punto la fragilità di questa trama, incapace di aggiungere una prospettiva, incapace di costruire un secondo livello di lettura, incapace di commuovere senza ricorrere ai trucchi più sgamati, questa trama si affloscia su di sé. Finiti i fuochi, non si sa dove indirizzare il film. E allora, il patetismo. Allora gli orsetti di peluche, i bambini malati, i bambini appena nati. Un po’ semplice, un po’ inutile giocare così.

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