Kristen Roupenian è un nome che fino a qualche giorno fa non diceva niente a nessuno. Oggi la scrittrice (che non ha ancora pubblicato il suo primo libro) compare nella lista degli autori dei racconti più letti dell’anno del New Yorker, insieme a vip letterari come Zadie Smith e F. Scott Fitzgerald. “Cat Person” il primo e unico racconto di Roupenian pubblicato dalla rivista, è immediatamente diventato virale ed è stato condiviso da migliaia di persone. Condiviso, commentato, criticato, osannato, frainteso. È stato oggetto di una quantità di articoli su diverse testate (Atlantic e Electric Literature, The Guardian e Slate), post di blog, e ha ispirato un profilo Twitter, “Men React to Cat Person“(raccontato bene da Elle) che antologizza le reazioni, sorprendentemente negative, degli uomini. Cos’è successo? Com’è che un racconto di finzione è riuscito a sollevare un tale polverone?
La trama: un uomo di trentaquattro anni, Robert, chiede il numero di cellulare a una ventenne, Margot. Dopo settimane passate a chattare, i due escono insieme. La storia, narrata in terza persona, viene raccontata dal punto di vista di lei, con uno sguardo analitico, che osserva e descrive scrupolosamente ogni microscopica vibrazione sulla bilancia dell’ego, soppesando emozioni, paranoie, paure, delusioni, eccitazioni e speranze a partire da gesti, comportamenti, dettagli, parole, emoticon, silenzi. Nel procedere dell’appuntamento, i momenti di disagio superano gli attimi di tenerezza e connessione, fino al piccolo disastro finale: il sesso. Lei non vorrebbe farlo, non ne avrebbe più voglia – lui non la attrae e quello che fa non le piace– ma qualcosa di confuso (descritto molto bene) la spinge a continuare fino alla fine. È una brutta esperienza. Dopo, si fa riportare a casa. Dal giorno successivo non risponde più ai messaggi di lui e alla fine grazie all’aiuto di un’amica riesce a comunicargli che non è interessata a rivederlo. Il racconto si chiude con la trafila di messaggi da disperato di Robert ubriaco.
Niente di sconcertante, insomma. Che è una delle forze di “Cat Person”: il suo parlare, semplicemente, di un appuntamento andato male, un’esperienza che abbiamo vissuto in molti, uomini e donne, da entrambe le posizioni. Sì, perché quello della donna che subisce l’atto sessuale e si “concede” anche se non le va (un dato che ha scatenato accuse al personaggio del racconto: «Doveva dire di no», e conseguentemente, in altri, il desiderio di proteggerla e giustificarla, «è una vittima dell’uomo e della società»), è uno stereotipo spesso abusato. Non solo una donna che fa sesso con un uomo che non le piace non sempre è una vittima, ma può succedere anche il contrario, e cioè che oltrepassato un certo punto un uomo possa sentirsi costretto ad andare avanti per non mettere a rischio la propria virilità e farsi considerare un debole, un complessato, uno sfigato. L’imperativo è che la donna, se non le piace l’uomo, può e deve sottrarsi, mentre l’uomo dovrebbe aver voglia di scopare sempre e comunque.
Un appuntamento è sempre un azzardo, un gioco di ruoli complesso, soprattutto se va male (un colpo di fulmine rende tutto più facile e naturale). Eppure, in un certo senso, c’è sempre qualcuno che vince e qualcuno che perde, uno che si sente sconfitto e uno che si sente soltanto seccato. “Cat Person” è bello per questo, perché racconta il dolore di un piccolo evento del genere, che è al tempo stesso un prodotto dei nostri tempi (la chat, le emoticon, i selfie, ecc.) e il sintomo senza tempo della difficoltà con cui gli esseri umani comunicano e si rapportano tra loro, di quelle tensioni irrisolvibili che, come in un tiro alla fune, conducono continuamente al di qua e al di là della linea di confine.
Nella vita succede spesso che è difficile decidere a chi dare la colpa, soprattutto quando non c’è nessun crimine. Figurarsi in letteratura. Una cosa è il caso Weinstein, un’altra cosa è quello che succede in “Cat Person”. Ma soprattutto: il caso Weinstein è vero, Robert e Margot no. Ma siamo immersi nel clima del post-Weinstein, che ci ha reso ipersensibili. I commenti su Twitter hanno generato una specie di infuocato forum letterario, che però letterario non è. Il problema, innanzitutto, è che, come spiega l’Atlantic, il racconto è stato trattato come un saggio o un articolo, un testo con una tesi da sostenere o un’esperienza di vita. C’è chi si è difeso dicendo che seguendo il link dal cellulare, non si vede la scritta fiction. Un fraintendimento che fa riflettere su come la differenza tra fiction e non fiction non sia chiara come crediamo. Margot è una stronza o una vittima? Robert è un porco schifoso, un cattivo? Il fatto che in molti si siano messi a incolpare o osannare l’uno o l’altro non fa che dimostrare l’unica vera tesi del racconto, che poi non è una tesi, ma è uno scenario, nel quale oggi più che mai ci ritroviamo immersi: un’ipertrofia della comunicazione che il più delle volte coincide con il suo fallimento.
Ma torniamo nel campo giusto in cui giocare, ovvero quello della fiction: il tono del racconto è simile a quello di giovani scrittrici come Sally Rooney e Olivia Sudjc (di cui si parla nel n°33 di Studio, in edicola), anche i temi sono gli stessi: il fallimento nella comunicazione e «le relazioni come costrutti immaginari che si scontrano l’uno con l’altro finché non cadono a pezzi», come scrive Laura Miller su Slate riferendosi a “Cat Person” in quello che è il migliore articolo scritto sulla vicenda (aggiornamento: ancora più bello è questo uscito su New Republic). Queste autrici usano la scrittura come un microscopio, e l’esperimento di cui seguire gli sviluppi sul vetrino sono le relazioni. L’attenzione è completamente assorbita dall’analisi di queste dinamiche: le parole scritte o dette, i corpi, il sesso (che non è quasi mai un atto di amore o di piacere, ma un ulteriore strumento per determinare i ruoli di potere all’interno della coppia). Questo dà inevitabilmente forma a un risultato un po’ crudele: perché non censura niente e riporta ogni pensiero, anche se moralmente scorretto (c’è chi ha accusato la protagonista di “Cat person” di #fatshaming, ad esempio). In realtà crudele non è, perché permette di fare una radiografia completa: la voce narrante, esponendosi completamente, dà modo a chi legge di vedere anche la sua, di miseria e di confusione.
La cosa che complica la faccenda è che il New Yorker ha pubblicato un’intervista all’autrice in cui il racconto viene continuamente mescolato con la sua esperienza personale e i suoi pareri sull’attualità. Una domanda, ad esempio, è: «Il tema del sesso non consensuale – tra uomini più grandi e donne più giovani, in particolare – è di grande attualità [tra l’altro, uno scrittore del New Yorker è stato appena licenziato perché accusato di molestie, ndr]. Tu pensi a questo incontro, che a volte fa rabbrividire il lettore, come consensuale? Margot lo ricorderà come tale?» Certo, in qualche modo il tema risuona con il movimento #MeToo, come sottolinea un altro articolo dell’Atlantic. Questo è senza dubbio il potere del racconto, di dar voce a tensioni in circolo. Molte donne, infatti, l’hanno letto come se fosse un’esperienza personale da cui trarre una lezione. L’impressione è che anche l’intervista pubblicata sul New Yorker suggerisca un po’ questa posizione.
Insomma: c’è chi da questo racconto vuole ricavare una morale o un insegnamento, chi l’ha preso come una testimonianza autobiografica e chi tende a immedesimarsi troppo con i personaggi (non bisogna mai dimenticarsi che per quanto possa sembrare reale, perfino se è autobiografico, un personaggio letterario è il frutto di un lavoro di sintesi, astrazione, composizione, stratificazione). C’è anche un lato positivo: un racconto bello e universale è riuscito, affrontando temi che riguardano tantissime persone, a far parlare di sé. E su tutto questo, un’ombra sinistra: sembra che i confini della letteratura, e dell’arte in generale, stiano diventando sempre più confusi e sfumati. Sembra assurdo, ma nel 2017 dobbiamo tornare a chiederci cos’è un opera d’arte e come possiamo proteggerla, ritrovandoci a combattere sui social per affermare cose che fino a ieri ci sembravano banali, più che ovvie, stupide perfino, tipo i motivi per cui un quadro di Balthus deve rimanere in un museo.
Immagini: due opere di Balthus (WikiArt)