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Il problema della carne coltivata è che continuiamo a chiamarla carne?

Il nome di prodotti come i burger vegetali e l'impossible meat non è solo una questione di sovranismo linguistico: una parola nuova per definirli potrebbe contribuire alla loro accettazione.

di Andrea Beltrama

Nel novembre scorso, la Camera approvava il decreto di legge contro la carne coltivata: un guizzo sovranista che, in nome della protezione degli allevatori italiani, metteva al bando tutti i prodotti a base di carne prodotta da cellule coltivate in laboratorio. Al netto del controverso contenuto della legge – al momento bloccata dalla Ue per un vizio di forma, in attesa di una valutazione più sostanziale – la normativa conteneva però anche una bizzarra appendice linguistica: il divieto di usare nomi di alimenti di origine animale – i termini meat sounding per farla breve – per la denominazione di prodotti a base di proteine vegetali. Ovvero, tutte le espressioni, più o meno creative, che negli ultimi anni si sono diffuse per riferirsi ai vari tentativi di imitazione della carne: dai burger vegetali alle bistecche di soia; dall’impossible meat fino al tuno, il tonno vegano. Quasi all’istante, sono fiorite le battute di scherno. Su tutte, quella che allora dovrebbero essere messe al bando anche le uova di Pasqua visto che non hanno né tuorlo né albume. Ma sotto all’umorismo da tastiera si cela anche un tema filosofico più serio, che l’avvento delle ultime tecnologie alimentari ha portato verso vette inesplorate. Cosa è davvero un hamburger vegetale? Fino a che punto ha senso considerarlo tale? E soprattutto, se davvero è solo una questione di etichette, perché il discorso sui sostituti della carne continua a ossessionare l’opinione pubblica, anche lontano dall’Italia?

Semplificando un po’, la questione rientra in un dibattito assai vivace nelle scienze del linguaggio: quello attorno a quelle espressioni complesse in cui una parte annulla o “assorbe” l’altra. Per citare due esempi classici: un leone di pietra è di pietra ma non è sicuramente un leone; e una pistola giocattolo è un giocattolo, ma non certamente una pistola. Il motivo per cui casi del genere hanno attirato per secoli l’attenzione di linguisti e filosofi è che presentano una violazione di un principio ritenuto fondamentale nell’interpretazione delle parole: quello secondo cui il significato di una parola complessa deve esse equivalente alla somma di quello delle sue parti, in onore all’idea che nel linguaggio, proprio come nell’energia, nulla si crea e nulla si distrugge. Se non fosse che, in casi del genere, qualcosa si perde evidentemente per strada, creando un grattacapo che gli studiosi del linguaggio. Nel mentre, però, il mondo ha continuato giustamente a girare. Del resto, con buona pace del pensiero accademico, espressioni del genere sono perfettamente normali, e richiedono semplicemente un minimo di elasticità mentale da parte di chi le interpreta. Anche nell’universo sterminato della terminologia del cibo. E infatti nessuno si è mai stracciato le vesti per termini come tonno di coniglio o salame al cioccolato.

Negli ultimi anni, però, qualcosa è cambiato. Soprattutto dopo che, nel 2016, la ditta Impossible Foods, fondata da un professore di biochimica di Stanford, lanciò il suo marchio di fabbrica: l’impossible burger. Un polpettone vegetale che, a differenza dei predecessori, aveva alle spalle due forze portentose. Una erano i capitali della Silicon Valley, tra cui pure quelli di Bill Gates. L’altro era l’heme. Una proteina prodotta in laboratorio con proprietà molto simili all’emoglobina del sangue animale, in grado di garantire una somiglianza organolettica con la carne francamente inquietante. E così, mentre persino i fast food iniziavano a servire il prodotto, il rapporto tra linguaggio e viveri raggiungeva uno livello di perversione del tutto nuovo. In cui essere elastici coi termini non bastava più; e diventava indispensabile abbracciare a piene mani la contraddizione.

Da una parte, l’hamburger impossibile era un oggetto decisamente tangibile, che rilasciava un liquido rossastro, e si impiombava tranquillamente nello stomaco per un intero pomeriggio. Dall’altra, si trattava di un’entità vegetale, creata a tavolino in laboratorio, eppure «ancora più carnosa della carne», come recitava uno degli slogan pubblicitari dell’azienda. Qualcosa che violava allo stesso tempo le leggi della fisica, e pure quelle della logica. E proprio qui stava la provocazione più radicale, quasi metafisica, dei prodotti lanciati da Impossible Foods. L’ambizione – o forse la presunzione – non di sostituire la carne, ma di ricrearla, riscrivendo al tempo stesso i confini della realtà e quelli del mercato. Una megalomania molto più tipica della Silicon Valley che del vegetarianismo, che finiva infatti per eclissare le ragioni originali che avevano spinto così tante persone ad adoperarsi per sostituire i prodotti animali con degli omologhi vegetali.

Ma oltre a rivoluzionare il mercato, i prodotti a base di impossible meat hanno riportato a galla, con nuova forza, la domanda linguistica che tormenta anche il nostro esecutivo. L’hamburger impossibile può essere legittimamente considerato un hamburger? O farlo comporta avallare un qualche tipo di inganno? Di primo acchito, la prima opzione è quella che pare avere più senso. Se l’hamburger impossibile sfrigola, sanguina e ingrassa proprio come un hamburger, perché non classificarlo come tale? È la stessa logica del motto “if it looks like a duck, swims like a duck, and quacks like a duck, then it probably is a duckche tanto piace agli americani, e che si è affermato col tempo come slogan per celebrare pragmatismo di chi agisce in base alle proprie impressioni e non si pone troppe domande.

Eppure, il ragionamento rimane scivoloso. Anzi, nel caso dell’anatra, portava proprio a una conclusione evidentemente errata. L’uccello che nuotava, starnazzava, e sembrava una papera era in realtà un congegno metallico a forma di volatile, che al proprio interno conteneva due elementi essenziali: uno scarico per il pane che veniva meccanicamente aspirato dal becco e un marchingegno a tempo che, a breve distanza dal pasto, espelleva palline di pane tinte di verde, simulando una defecazione. Si trattava di un’invenzione dell’ingegnere francese Jacques de Vaucanson. Un oggetto portentoso, ma che nessuna persona sobria oserebbe mai classificare come una vera anatra. Alimentando il dubbio che anche per le carni impossibili, in fin dei conti, ci si trovi di fronte a una simile illusione. Quella di un’entità sofisticata, ingegnosa, artistica, e sotto tutti i punti di vista tremendamente simile all’originale; ma che resta pur sempre un triste simulacro, il cui unico compito è quello di evocare qualcosa che in realtà non può esserci.

La soluzione definitiva, ovviamente, non esiste. Rifiutare o accettare di considerare il polpettone all’emoglobina alla stregua di un hamburger rimane di fatto una scelta individuale, proprio come decidere di mangiarlo. È però interessante osservare che, dopo il devastante successo degli inizi, la traiettoria commerciale delle carni impossibili abbia recentemente subìto una brusca frenata. Al punto che qualcuno ha descritto l’intera operazione commerciale un fallimento – o comunque qualcosa di molto meno dirompente di quanto ci si aspettasse. E l’origine del problema sembra proprio essere la paradossale terra di mezzo in cui è rimasta invischiata la percezione pubblica di questi prodotti: troppo simili alla carne per essere davvero graditi a chi sceglie di non mangiarla, ma evidentemente incapaci di offrire un’alternativa migliore, nemmeno a livello finanziario, per chi la carne la mangia comunque, e non ha alcun motivo di sostituirla. E così, mentre il destino commerciale di questi prodotti rimane tutto da decidere, una certezza rimane: è difficile, e forse impossibile, separare la crisi delle carni impossibili dal paradosso legato al loro nome. Quella denominazione studiata a tavolino che avrebbe dovuto rivoluzionare i confini della realtà; e che invece, per assurdo, ci ha ricordato una volta di più quanto quei confini siano difficili da spostare. Comunque vada a finire con il decreto di legge del ministro Lollobrigida.