Cultura | Architettura
Come il brutalismo ha conquistato internet e il mondo
Da almeno quindici anni il brutalismo è ovunque: nei libri di fotografia, in podcast dedicati, su Tumblr, su Instagram. E adesso è pure protagonista di un film candidato all'Oscar.

È pazzesco, bellissimo, mai ci vivrei, è orrendo. È la post-contraddizione, quella cosa per cui sui social distribuisci like a cose che ti fanno ribrezzo grazie al loro fascino. Oppure è solo un buon modo per chiudere il discorso, quando ti capita tra le mani – tramite smartphone – la fotografia di un grigio, immenso edificio in calcestruzzo a vista, consumato dal tempo, ciclopici blocchi di cemento sospesi nel vuoto a dieci, venti metri d’altezza che, se geolocalizzati abbastanza a est, sono pure immersi in desolantissime distese di neve.
Eppure se ne discute, queste strutture fanno il pieno di like e commenti, l’hashtag (per chi li usa ancora) #brutalist viene accostato a qualsiasi cosa – dall’architettura alla cucina, alla moda, persino alle posate di lusso (come quelle, sì bellissime, di Virgil Abloh, precursore in tutto). Editori attenti all’estetica come Phaidon e Taschen avevano intercettato l’onda già quindici anni fa, quando i libri sui concrete buildings, o gli atlanti del brutalismo nel mondo, sono diventati best seller da appoggiare sui tavolini (minimalisti, quelli) di appartamenti e wine bar, o quando un fotografo semi sconosciuto come Frédéric Chaubin finiva per trascorrere anni nei Paesi ex sovietici per documentare i più strambi edifici in cemento armato. Poi è passato ai castelli medievali e difficilmente replicherà lo stesso successo.
Nelle sale è appena uscito The Brutalist, film già collezionista di premi e in gara per dieci Oscar, protagonista Adrien Brody con l’identità di László Tóth, nella realtà nome dell’ungherese che nel 1972 ha vandalizzato la Pietà di Michelangelo a San Pietro, omonimia casuale secondo il regista ma che comunque traccia un nesso. In fondo, quando parliamo di brutalismo, in modo più o meno cosciente pensiamo alle rovine, a statue a cui manca un piede o mezzo braccio, alla materia che resiste nonostante tutto. Quel che è certo è che tra tutti i titoli possibili per un film sulla storia di un architetto, The Brutalist – termine che è sempre piaciuto più ai critici che agli architetti – è sintesi di un certo modo di trasformare ambienti e paesaggi, di sfidare regole e leggi dell’urbanistica e della forza di gravità, è l’essere umano libero di imporre la propria visione servendosi di uno strumento semplice quanto economico: il cemento, anzi le barre di ferro che ci sono state affogate dentro. Solo così, quella materia che per secoli ha retto solo alla compressione, ha iniziato a reggere anche alla tensione ed è cambiato tutto. Oggi questa trovata da chimici e ingegneri fa il pieno di like.
Tuttavia – dovremmo averlo ben chiaro – quei like non sono per gli edifici, sono per le foto degli edifici (che spesso finiscono relegati sullo sfondo, come nel caso di due tra i più popolari profili Instagram dedicati al brutalismo, brotalism e brutalady). Ma nessuno conosce la ragione per cui questi blocchi di cemento hanno successo soprattutto quando scorrono sugli schermi (quando Tumblr era al massimo della sua rilevanza, uno dei blog più letti era FuckYeahBrutalism), quando vengono raccontati nei podcast (segnaliamo Cemento, podcast italiano sull’argomento), quando generano commenti nel mondo immateriale ed effimero dei social. Di sicuro sono una sintesi, ma di che cosa? Ipotizziamo.
Per la fotografia, la ragione è estetica. Ormai vent’anni fa – anche se periodicamente viene riproposta come una novità da esplorare – nella fase distopica post 11 settembre, è arrivata l’ondata dei luoghi abbandonati. Gli aspiranti fotografi del pianeta hanno iniziato scavalcare cancelli e recinzioni per entrare all’interno di vecchi impianti industriali, ex ospedali, torri di controllo in disuso, centrali elettriche abbandonate. Hanno fotografato ogni cosa con l’occhio del fotografo e dell’avventuriero, pochi di loro sapevano leggere l’architettura che stavano fotografando. Il risultato è stata un’estetica eccezionale fatta di macerie, polvere e cemento screpolato, naturalmente a fronte di scarsissimi contenuti, che ha fatto il giro del mondo, anzi del web. E ha iniziato a diffondersi l’hashtag #brutalism, anche nei casi in cui l’edificio era moderno o razionalista (insomma, assomigliava) e magari le pareti erano state pure intonacate. Oggi di profili brutalisti, sui social, se ne trovano un tanto al kilo, la nuova frontiera è mescolarlo con l’AI e vedere chi riesce a distinguere costruito e generato.
Alcuni fotografi nati negli anni Ottanta nei Paesi post-sovietici ci hanno raccontato un’altra versione: hanno iniziato a muoversi tra gli edifici abbandonati per cercare le loro radici, per conoscere i luoghi in cui avevano lavorato i loro genitori e i loro nonni come funzionari di uno Stato che non esisteva più. Ma gli edifici brutalisti non si trovano solo nelle pianure innevate dell’est, anzi, la vera vertigine arriva quando attraversi downtown Manhattan e alzi gli occhi di fronte al 33 Thomas St, ex edificio AT&T e nelle leggende metropolitane luogo pieno di spie, centosettanta metri di altezza senza una sola finestra, spettacolare, like assicurati, bello ma non ci lavorerei, come gli è venuto in mente, e via così con la discussione. E provate, sempre a New York, a postare le foto dello Standard High Line, hotel sospeso su una serie di apparentemente fragilissimi pilastri in cemento armato, bello ma non ci dormirei, è così brutto e così caro, è uno spettacolo. Non c’è edificio al mondo che apra alla discussione quanto un edificio brutalista.
Ma – continuiamo a ipotizzare – c’è una ragione più concettuale. Il brutalismo è la libertà dalle imposizioni del movimento moderno, gli edifici sono messi a nudo, la loro struttura è come appare, dalle loro fotografie si riconoscono tutte le leggi della fisica che gravano sulla struttura (provare con la Torre Velasca, Milano). Tutto questo si chiama etica, per questo si presta alla discussione. L’architetto marsigliese Rudy Ricciotti, di certo non brutalista ma grande sostenitore del cemento armato in tutte le sue varianti, dice che il cemento è il materiale più etico e sostenibile del pianeta, viene prodotto al massimo a 200 kilometri da dove verrà poi utilizzato, non ha a che fare con la finanza, con la globalizzazione o le delocalizzazioni, non ha niente a che fare con tutti quei materiali che attraversano il pianeta e vengono scambiati in borsa come l’acciaio.
Marsiglia, tra l’altro, è il luogo in cui viene fatto nascere il brutalismo (ma l’argomento è discusso, guarda un po’, d’altra parte quando la stessa idea circola nello stesso periodo, finisce per avere diversi luoghi d’origine), con l’Unité d’Habitation di Le Corbusier, iconico condominio con l’ancora più iconico tetto-terrazzo. Oggi, questo spazio dove le canne fumarie sono sculture in cemento armato è di proprietà del designer Ora Ito, e la moda è disposta a pagare cifre colossali per portarci buyer e giornalisti dotati di smartphone e follower. La scorsa primavera Chanel ha affittato l’intero condominio per una settimana per presentare la collezione Cruise 2024 2025 e tutto, abiti e canne fumarie, è finito su Instagram, naturalmente si è finito per discutere più delle seconde che dei primi.
Ma poiché anche secondo Franco Battiato «è meglio un imbianchino di Le Corbusier», può capitare che il calcestruzzo degli edifici brutalisti finisca per essere imbiancato per decreto. È successo in Liguria, a Genova Pegli, nelle cosiddette “Lavatrici”, edifici dotati di grandi oblò e popolati solo da abitanti (loro sì, abbandonati a loro stessi) e trapper impegnati a girare video tra il cemento armato e il mare. Sui social è sempre andato fortissimo fino al giorno in cui è stato approvato «un piano del colore per il quartiere, al fine di mitigare l’impatto del cemento sul territorio». Oggi, questo quartiere così colorato dove continua a non voler vivere nessuno, non vale più nemmeno quel like, né l’ennesima discussione dove esprimere tutte le nostre contraddizioni.