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Beppe Modenese, ultimo degli eleganti

Si è spento ieri uno degli artefici del sistema moda italiano, instancabile scopritore di talenti e innovatore.

Beppe Modenese durante una sfilata di Max Mara, 25 settembre 2010. Foto di Tullio M. Puglia/Getty Images

Domenica 22 novembre è morto Beppe Modenese, l’ultimo degli eleganti. Dormiva nudo perché lo faceva sentire libero ma conosceva bene l’arte del vestire italiano. Aveva due sarti: Caraceni e Rubinacci, camicie su misura solo da Siniscalchi, via Montenapoleone, e sempre con i gemelli, scarpe Barrett di Parma e profumo Ormonde, fuori produzione, con un accento personale di estratto di rosa. A Beppe Modenese l’Italia deve Milano. Si deve anche a lui se, con infinita pazienza e superando ostacoli di ogni tipo, Milano è diventata la città della moda, invece di, che so, la città dei bulloni, soppiantando Firenze e Parigi. Si deve a lui se la moda italiana conta 64.300 imprese che generano un fatturato di 97,9 miliardi di euro e danno lavoro a 575 mila lavoratori. Beppe Modenese era il volto dell’alta moda italiana all’estero, tessitore di colazioni e party a Manhattan.

Lo hanno chiamato con appellativi politichesi: «primo ministro della moda italiana» (Wwd), «istituzione» (Franca Sozzani), «monumento» (Mariella Milani), «arbiter elegantiarium» (Moda e modi), «Richelieu della moda» (Gianluca Lo Vetro). Proprio Lo Vetro, il primo a occuparsi di sfilate per l’Unità, fu costretto da Modenese a sloggiare dalla prima fila durante una sfilata perché aveva le scarpe slacciate. Pena buona e giusta inflitta con garbo. I riconoscimenti istituzionali non gli mancavano: presidente onorario della Camera Nazionale della Moda Italiana, Cavaliere della Repubblica nel 1985, nel 1999 il Presidente della Regione Lombardia Formigoni gli consegna la massima onorificenza lombarda, la Rosa camuna. Ma Modenese era tutto tranne che monumento. Nel suo studio c’era una corona dorata di moplen che gli avevano messo in capo i giornalisti di moda newyorchesi riuniti dalla pierre di Tiffany, “Vaffancolor” di Giorgio Forattini, un ritratto di Gianfranco Ferrè – suo grande amico, fu lui a presentarlo nel 1978 a Rudy Crespi, editore di Vogue in Brasile e Messico, e Dawn Mello, vicepresidente di Bergdorf Goodman, lo volle a tutti i costi – tre foto antiche virate seppia dei suoi cani, svariate boule de niege, due pupi siciliani e del cartone rosa per disegnare porcellini. Nel suo guardaroba non c’erano: pigiami, canottiere e slip.

Era nato ad Alba ma non diceva quando per difendersi come poteva «dalla stupidità della gente, convinta che le persone anziane debbano essere per forza anche rimbambite». Suo padre produceva cioccolato e uno dei fratelli Ferrero lavorava da lui. «Era un piemontese garbato e caritatevole», con pazienza ti spiegava l’ordine dei commensali a tavola, l’importanza dell’office accanto alla sala da pranzo, la differenza dell’abbigliamento per il giorno e la sera. Poi ti parlava di certe signore di recente ricchezza che si vantano di avere delle preziose “boiserie tutte di legno”. Nel suo studio qualche volta s’incontrava l’architetto Piero Pinto, compagno di vita che durante la Seconda guerra mondiale aveva dovuto rifugiarsi in Svizzera, a causa delle leggi razziali, e il cui fratello Aldo aveva sposato Mariuccia Mandelli in arte Krizia, in seconde nozze. Beppe&Piero erano grandi amici di Guido Vergani e “Riccardo” (Muti), trascorrevano spesso le vacanze in barca. Sveva Casati Modignani li aveva ribattezzati «l’articolo il», perché Modenese era altissimo, mentre Pinto era piuttosto basso. Nel 1952, ha raccontato Tirelli nel libro autobiografico Vestire i sogni scritto con Guido Vergani per Feltrinelli, che Giorgio Sarassi, che aveva fatto fortuna trattando tessuti d’alta moda, gli aveva trovato un impiego a Milano: fattorino vetrinista da Marco, negozio di stoffe in via Montenapoleone. Quasi di fronte, c’è la boutique di Mirsa dove, con Paola Carola, lavora Beppe Modenese. Per risparmiare, per «sopravvivere perché le nostre buste paga erano magrissime», prendono casa insieme. La marchesa Olga di Gresy, fondatrice di Mirsa, in società con Giovanni Battista Giorgini, aveva aperto un piccolo magazzino di lusso in stile americano, al numero 14 di via Montenapoleone: il Ridotto. Scelsero Modenese per dirigerlo e lui ne fece il punto di ritrovo dell’alta borghesia meneghina.

Modenese e Pinto s’improvvisavano antiquari, giravano le campagne alla ricerca di mobili antichi per poi rivenderli. Poi il concittadino e famoso autore televisivo Guido Sacerdote propone a Modenese un provino alla Rai e, grazie alla bella voce e una certa spigliatezza, inizia a lavorare a Vetrine, programma condotto da Elda Lanza, prima donna importante della televisione italiana. Teneva una rubrica due volte alla settimana, prima sull’antiquariato e poi sulla moda. Siccome doveva formarsi, viaggiava a Parigi sul treno notte in terza classe, a sue spese. Lì intervista i grandi nomi della moda francese, tra cui Christian Dior: un incontro che gli aprì molte porte.

Sembra un altro sistema solare, se si pensa a certi designer “giovani” che vogliono essere Versace e subito, fare una barca di soldi e chiamano per lamentarsi di un articolo “ingiusto”, e ai giullari della moda: gli influencer. Nel 1966 Chanel lo manda a Mosca per la prima sfilata nell’Urss. Lì impara a far tutto con niente, uno dei motivi di fondo della cultura della moda italiana: passerelle di legno per le modelle, donne che di giorno indossano la tuta da operaie in fabbrica e la sera arrivano all’Hotel Rossiya con tailleur ricavati dagli abiti rivoltati dei mariti. E per l’amica Estée Lauder decora la Scala di Milano con uno scandaloso tripudio di garofani celesti, il colore simbolo di Estée Lauder. Diceva di non aver mai avuto rapporti cattivi con nessuno, «chissà, forse dovrei averne». Supportato dall’assistente di sempre Carla Ling, aveva inventato Idea Como, esposizione dei setaioli comaschi, poi Mipel (mostra della pelletteria) e Idea Biella, manifestazione dedicata ai tessutai del biellese.

Senza soldi ma con tante idee, negli anni Settanta si presenta da Michele Guido Franci, direttore della Fiera, e gli dice che vuole portare i sarti di Firenze a Milano. «La scenografia era tristanzuola, capannoni spogli, freddi. Mi trasse d’impaccio Mariuccia Mandelli, che già allora era una papessa. Fu lei, Krizia, a radunarmi tutti gli stilisti al Savini. Milano Collezioni nacque così». Così, Il 3 ottobre 1979 nasce il Centro Sfilate, che diventerà Milano Collezioni, che diventerà la Settimana della moda di Milano, nella diffidenza di molti e la fiducia di pochi.

Ma Beppe Modenese ha sempre creduto in quello che faceva. È stato uno spericolato scopritore e lanciatore di talenti, nonché artista. Sapeva che per primeggiare nella moda non basta sfornare borse, per quanto belle, bisogna sfornare talenti e fare sistema. Dolce & Gabbana sono gli unici a riconoscergli la paternità del successo. Quando li sceglie come nuove proposte per Milano Collezioni saltano e ridono di gioia. Il talento per Modenese è nella diversità. Oggi c’è molta più uniformità rispetto al passato, quando lo stile di ogni marchio era ben riconoscibile. Nel 1991 aveva organizzato una piccola esposizione dei gioielli che disegnava per Faraone, storica gioielleria di Milano: una collezione ecologica, con insetti, foglie e fiori semplici come gli iris, venduta nelle boutique Tiffany di Londra, Monaco, Francoforte e New York. Apprezzava l’originalità perché «per fortuna nella moda, come nell’arte, non esistono limiti». Bisogna ricordare Beppe Modenese, il suo lavoro, la sua personalità unica.

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