«Questo film si incentra su una sola domanda: la bestia – e cioè il mio istinto bestiale – è qualcosa che è dentro di me o qualcosa che esiste al di fuori di me?». Lo ha detto in un’intervista a Jezebel Halina Reijn, regista di Babygirl, il film erotico da poco nelle sale italiane con protagonisti Nicole Kidman e Harris Dickinson. Accolto con favore dalla critica all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove Kidman si è anche aggiudicata la Coppa Volpi come Miglior attrice, Babygirl è stato accompagnato da un discreto hype, quello che è capace di generare ogni produzione A24, fino alla sua uscita (in America è arrivato nei cinema a Natale). La sinossi, d’altronde, prometteva bene. Un ritorno senza vergogna al film erotico anni Novanta con al centro – però – una protagonista femminile over cinquanta, nel solco di quello che è stato definito un “trend” nel 2024, ovvero quello delle donne non più ventenni ma incredibilmente ancora capaci di presenziare nella cultura pop.
Queste donne le abbiamo categorizzate come Pornhub ci ha insegnato, milf, cougar, matura che dir si voglia: nomenclature che sarebbero anche divertenti se non denunciassero la nostra incapacità, come società, di trovare un posto alle donne nelle nostre fantasie sessuali quando ci si lascia la giovinezza alle spalle. Da The Idea of You con Anne Hathaway a Inganno con Monica Guerritore, sono tanti i film e le serie che nell’ultimo anno hanno raccontato, in maniera più o meno convincente, storie tra donne più grandi e uomini più giovani (anche Sally Rooney ne parla nel suo Intermezzo), provando a ridefinire una dinamica che per lunghissimo tempo è stata relegata a stereotipi e mediocrità. Babygirl è certamente l’esperimento più ambizioso in questa lotta alla riappropriazione della sessualità femminile, se non altro per la sua qualità estetica: Reijn, che nel 2022 aveva ottenuto un buon successo con il suo Bodies Bodies Bodies, si pone tante domande a riguardo, ma sceglie consapevolmente di non rispondere a nessuna di esse.
Kidman interpreta Romy, Ceo di un’azienda che di occupa di logistica, mentre Dickinson è il suo stagista poco più che ventenne: di giorno infagottato in completi troppo larghi per lui che dovrebbero raccontarci della sua origine proletaria, di notte cameriere in uno di quei bar dove i drink costano cinquanta dollari e Master (nel senso Bdsm del termine). Romy ha un marito (Antonio Banderas) con cui non ha mai raggiunto l’orgasmo, due figlie adolescenti che sono brutali nel farle notare che è “vecchia” – «Sembri un pesce lesso!» le dice quella con il mullet e i pronomi they/them commentando il suo Botox – ma che tutto sommato le vogliono bene, e sono delle brave ragazze, così come l’uomo che ha accanto è un bravo marito, e hanno una bella casa, e un bel tenore di vita, ma Romy è insoddisfatta.
Nella scena iniziale, lo stagista (che lei ancora non conosce) si fa notare nelle affollate strade di New York grazie a un’abilità quasi demiurgica, che lo ammanta sin da subito di una certa potenza maschile che ci verrà raccontata per tutto il film. Samuel, infatti, riesce a calmare con due carezze e qualche bisbiglio un grosso cane rabbioso che sta per aggredire Romy. «Babygirl», sussurra al cane, e l’equivoco è servito sin dai primi minuti come se fossimo su Wattpad: si può ridere, cringiare, oppure godersi queste due ore sperando di non trovarsi di fronte alla versione intellettuale di Cinquanta sfumature di grigio. E in effetti Reijn fa di tutto per evitare di prendersi troppo sul serio e grazie all’interpretazione di Dickinson (che si conferma uno degli attori più talentuosi della sua generazione) questo dominatore non è un bamboccio né una maschera, anzi spesso è insicuro, alle volte gli viene da ridere, segnato da una mascolinità dolente che è quella che oggi cerchiamo di investigare da tutti i punti di vista. È anche del Cancro, ha detto la regista, e chi conosce un uomo Cancro sa che sono preziosi ma anche dei gran rompicoglioni, malmostosi e umorali.
Affinità zodiacali a parte, è Romy che a volte si fa fatica ad afferrare: la nostra babygirl è chiaramente stanca di decidere tutto lei, di mettersi il grembiule per preparare il pranzo al sacco alle sue figlie, di far finta di interessarsi alle pièce teatrali del marito (che senza ironia sta mettendo in scena nientemeno che Hedda Gabler) e doversi poi masturbare di fronte al pc. Insomma, questa babygirl è stressata e vorrebbe qualcuno, un uomo possibilmente, che prendesse in mano la situazione, mentre passa le sue giornate a registrare uno spot per la sua azienda in cui le dicono che è troppo rigida, e che deve sciogliersi. Cosa bisogna fare per farsi dare due pacche sul culo di questi tempi? Lo stagista le offre una via di scampo, a cominciare da un bicchiere di latte che le arriva senza preavviso a un aperitivo d’ufficio: lì comincia questa storia, ma Reijn non vuole mostrarcela nei dettagli.
Gli appuntamenti in hotel «disgustosi», dove Romy si ritrova a quattro zampe (A quattro zampe, tra l’altro, si chiama l’ultimo romanzo di Miranda July, caso editoriale che parla proprio delle donne vicine alla menopausa e dei loro desideri), le sveltine in ufficio e anche il rave dove Samuel trascina Romy ci vengono mostrati in sequenze veloci, come se non fosse quello il punto, e forse non lo è. Il sesso in Babygirl è tutt’altro che estremo, il Bdsm è anzi tenero e impacciato, quasi patetico. Il punto è un altro, anzi molti altri: le fantasie sessuali di una donna, soprattutto quando è ricca e “potente” come lo è Romy, possono esprimersi senza conseguenze come succede per gli uomini? Il potere ci rende tutti uguali, uomini e donne? E quanto potere c’è nell’essere giovani, e sexy, e belli? Si può imparare a trovare nuovamente attraente un partner che non ci ha mai soddisfatto appieno? Archiviata la retorica da “girl boss”, che differenza esiste – se esiste – tra una leadership femminile e una maschile? Una donna di potere è responsabile anche di tutte le altre donne nella sua azienda? O può esclusivamente pensare alla sua carriera, ed eventualmente distruggerla, come farebbe un uomo? Babygirl in qualche modo tocca tutti questi argomenti, ma poi passa oltre.
Superati certi dogmatismi del #MeToo, oggi si parla di sessualità femminile in maniera finalmente sfaccettata (le donne della Generazione X stanno avendo ora il sesso migliore della loro vita, dice il New York Times) così come è complessa la discussione intorno al volto delle donne, e ai loro corpi. Lo dimostra il successo di film come The Substance, che ci ricorda la rincorsa alla longevità (immortalità?) in cui siamo impegnati: sempre più belli, sempre più giovanili, sempre più soli. Anche Babygirl utilizza, in qualche modo, il volto di Kidman come una sorta di tesi da confutare: cristallizzata nel ruolo della ricca signora con il guardaroba quiet luxury (Big Little Lies, The Expat, The Perfect Couple), quest’attrice mostruosamente brava lo sa che non riesce più a muovere la faccia?
Da Dazed si sono chiesti se il Botox sta rovinando il cinema, ma in opere come The Substance e Babygirl il Botox è parte del cinema. Sembra quasi inutile lamentarsi che le troppe punture impediscano di esprimere le emozioni “umane” quando sempre più umani ne fanno ricorso, nella vita di tutti i giorni e non solo sullo schermo. Probabilmente l’aspetto più genuinamente femminista di Babygirl è il fatto che il personaggio di Dickinson esiste solo per andare a letto con la protagonista e incasinarle la vita, non ha uno spessore o una profondità veramente sue: intuiamo che è un ragazzo che possiede un certo sesto senso “da strada” ma anche quando minaccia di rovinare la carriera di Romy non è mai, davvero, al centro della scena. Perché lei vuole essere rovinata, è quella la sua fantasia: un uomo se ne sarebbe fottuto delle conseguenze, ma per Romy le cose vanno diversamente, almeno per adesso. Chi può dirlo, magari un giorno ci riuscirà (a fottersene), magari dopo i sessanta.