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Possiamo fidarci delle app di terapia?

Il boom della terapia online prometteva una democratizzazione delle cure: non sta andando proprio così.

UnoBravo, Serenis, Psicologionline, TherapyChat: sono tantissime le piattaforme che hanno iniziato a occuparsi di salute mentale dai mesi della pandemia e dei lockdown, che si è rivelato un periodo floridissimo per le aziende della psicoterapia online a basso costo. Le imprese, nella maggior parte Spa, hanno sancito il loro successo nel mercato grazie a un marketing aggressivo, assicurandosi schiere di influencer ben posizionati e sponsorizzati, e hanno scalato le vette dell’imprenditoria con slogan vincenti ed efficaci.

Il punto di forza di queste piattaforme sta nell’offrire vicinanza alle persone che si sentono pronte ad affrontare un percorso di terapia, a prescindere da disturbi particolari. Molti psicoterapeuti che lavorano o hanno lavorato nelle piattaforme riconoscono a queste realtà il merito di aver interpretato correttamente un bisogno “di amicizia e vicinanza” di molte persone isolate. L’estesissimo lavoro di marketing ha avuto come conseguenza – positiva – quella di svecchiare la professione di psicologo e avvicinarlo al desiderio di tanti giovani di parlare con “qualcuno” del proprio benessere mentale. Da ultimo, in un Paese che forma tanti psicologi quanti ce ne sono in tutta Europa, le piattaforme hanno sicuramente il merito di introdurre i giovani professionisti al mondo del lavoro. Tutto questo, però, non senza criticità.

Il percorso di psicoterapia online è semplice: si accede al sito, si si sceglie fra vari test, dalla depressione ai DCA, e poi si valuta se procedere alla prima seduta gratuita. Le successive costano in media 50 euro, mentre il costo medio di una seduta fuori dalle piattaforme è di 70/80. Il percorso si svolge esclusivamente online e lo psicoterapeuta assegnato al paziente vive solitamente in un’altra città, per garantire il rispetto della clausola forse più importante sulla quale si regge l’imprenditoria della salute mentale: il paziente non è dello psicoterapeuta, ma dell’azienda.

Il mondo della telemedicina e quello della salute psichica sono in crescita, con un volume d’affari che raggiungerà i 17 miliardi entro il 2026. Parallelamente al graduale smantellamento, almeno in Italia, del Servizio Sanitario Nazionale, le piattaforme private hanno capitalizzato il crescente bisogno di prendersi cura della propria salute mentale. Serenis, fondata da Sara Wang e Daniele Francescon, solo nel 2022 ha chiuso due round da 5,4 milioni di euro, ha investitori privati ma beneficia anche di investimenti pubblici di Cassa depositi e prestiti europei. Unobravo, alla fine del 2023, ha raccolto investimenti per 17 milioni di euro, guidato da Insight Partners. È «una miniera d’oro» secondo Milano Finanza, e tra gli investitori troviamo anche i nomi della famiglia Berlusconi. Effettivamente è proprio di business che si parla: più LinkedIn che psicoterapia. Francescon, co-founder di Serenis, scrive nella sua bio la carriera che ha percorso: «Parole inglesi e acronimi: Sem, Seo, Cro, Smm, content, analytics, performance marketing. E tanto tanto brand».

Insomma, enormi successi imprenditoriali, che forse non hanno al centro del progetto la psicoterapia e l’accesso democratico alla salute mentale, ma i profitti. Nel 2022 Time ha pubblicato un lungo pezzo intitolato “La bolla della terapia online sta scoppiando”, proprio sui problemi di associare aziende che cannibalizzano il mercato e salute mentale. Secondo Jamie Ducharmed, autrice dell’articolo, dare priorità alla crescita e al profitto sopra ogni altra cosa «è una mentalità comune tra le startup tecnologiche». Si racconta, poi, che gli investimenti nella sanità digitale, in Usa, sono diminuiti di 4 miliardi di dollari nella prima metà del 2022, rispetto alla prima metà del 2021, anche a causa di policy poco chiare sulla prescrizione di farmaci per l’Adhd. L’articolo del Time porta alcune testimonianze di professionisti sanitari coinvolti in piattaforme come Done e Celebral, in cui si evidenziano problemi come: appuntamenti troppo corti per trattare a dovere i pazienti; sovraccarico di lavoro per i terapeuti; politiche di prescrizione di famaci troppo lasche.

Parte della riuscita di un percorso di terapia, infatti, si costruisce nel rapporto tra paziente e professionista, che, avendo non solo studiato per dieci anni ma anche preferito uno specifico indirizzo di specializzazione, ha la facoltà di scegliere. Alcune piattaforme come Unobravo impongono l’uso del “tu” con il paziente. Ci dice un ex collaboratore di una piattaforma: «Se io faccio un intervento con una certa metodologia dove mi racconti la fobia degli aerei, va bene se ci diamo del tu, se lavoriamo sul problema. Se lavoriamo sul rapporto tra paziente e professionista il “tu” è una questione, c’è subito un agito di vicinanza, questo diventa un tuo amico».

Continua spiegaci, a grandi linee, il funzionamento di queste app: nonostante la possibilità di entrare nel vivo della professione a un’età relativamente giovane, il trattamento economico è singolare. Il primo colloquio, gratuito per il paziente, non viene retribuito al professionista; in media, dalle sedute successive, il terapeuta guadagna circa 30 euro all’ora lordi a partita iva. Ancora, desta qualche perplessità l’algoritmo che decide il matching tra professionista e paziente. Sembra che il prodotto venduto da queste piattaforme sia la disponibilità dei terapeuti, più che la psicoterapia. Il professionista è obbligato a mettere a disposizione un monte orario minimo, ma le ore effettivamente lavorate sono poco più della metà. Questo per far sì che non manchi la disponibilità per i nuovi potenziali pazienti che chiedono un colloquio; con la conseguenza che circa il 30 per cento del tempo messo a disposizione è inutilizzato e non retribuito.

Anche la modalità di feedback sul lavoro degli psicoterapeuti è problematico: un algoritmo valuta quanti pazienti rimangono dopo la prima seduta e quali sono le impressioni dopo il quinto colloquio, con un punteggio a stelline. Tutto fa pensare alla soddisfazione del cliente, con il rischio di innescare un rapporto di seduzione che il professionista può esercitare sul paziente per ottenere una buona recensione.

«L’industria digitale deve fare meglio se vuole mantenere le sue promesse», ha detto a Time il dottor John Torous, direttore della divisione di psichiatria digitale presso il Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston. Per Torous, lo scetticismo nei confronti di alcune società di telepsicologia è separato dalla sua fiducia nella promessa della telemedicina nel suo insieme. Gli studi hanno ripetutamente dimostrato che l’assistenza virtuale per la salute mentale può funzionare e che sia i pazienti che gli operatori apprezzano l’esperienza. Il problema non è il concetto di telemedicina, quindi, ma il modo in cui viene implementata dalle startup che cercano di massimizzare i profitti, sostituendosi di fatto al sistema sanitario nazionale.

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