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Che cosa fa uno stylist

Nel loro nuovo libro il giornalista Antonio Mancinelli e la stylist Susanna Ausoni indagano le radici e il significato di una professione oggi fondamentale nell'industria della moda.

27 Febbraio 2022

È una delle figure più richieste nella moda, ma fino a non troppi anni fa spesso anche una delle più nascoste. Soprattutto quando si parlava di persone che erano, a tutti gli effetti, co-responsabili dell’intera estetica di un marchio insieme al designer-star che firmava le collezioni. A un certo punto, però, questa fondamentale figura professionale ha iniziato a essere riconosciuta e a diventare sempre più centrale non solo nei brand, ma anche nei giornali e nell’industria dello spettacolo, dove gli stylist si sono sempre occupati della costruzione dell’immagine delle celebrity. Una storia che Antonio Mancinelli, giornalista, scrittore e critico di moda, e Susanna Ausoni, stylist, consulente d’immagine e imprenditrice che segue Mahmood ed Elisa fra gli altri, raccontano nel loro nuovo libro L’arte dello styling (Vallardi Editore). Abbiamo intervistato Mancinelli, che ci ha raccontato come si è evoluta questa professione, quali sono i requisiti che richiede e come riesca a essere l’anello di connessione tra il mondo immaginato dai designer e le persone che indosseranno i loro vestiti.

Nel libro esplori la professione dello stylist da molti punti di vista, dalle sue radici storiche ai campi in cui si applica fino alle caratteristiche della professione stessa. Come mai, secondo te, è così difficile da raccontare, soprattutto in Italia? Sempre per quel pregiudizio nei confronti di tutto ciò che riguarda la moda?
Da noi la narrazione dei fenomeni socioculturali come la moda, ma anche delle problematiche che a lei si possano relazionare, continui a essere considerata attività schiumevole, superficiale, transitoria: quindi non degna di essere studiata a fondo. Gli italiani hanno sempre amato la suggestione romantica più che lo studio sistematico, siamo più lirici che prosaici. Quindi la figura del designer che lavora in solitudine, creando capi memorabili dopo essere stato trafitto dall’“ispirazione” è ancora dura a morire. Figuriamoci quella dello stylist, che lavora con del materiale già esistente e cerca di assegnargli un nuovo significato assemblando oggetti in contesti “altri”. Io sono partito da due considerazioni che mi hanno molto colpito: una è della studiosa Joanna Enwistle che sostiene in The Fashioned Body: fashion, dress and modern social theory come la moda, in generale, sia un sistema di abbigliamento che trova nella modernità un sistema sociale per codificare la presentazione dei corpi. L’altra è dell’antropologo e linguista Edward Sapir che alla voce: Fashion della Encyclopaedia of the Social Sciences, adotta un approccio interessante collegando la moda con la psiche, osservando che «la moda è strettamente legata all’ego» e sottolinea che nel vestire l’utilità ha una priorità minore: «L’irrilevanza funzionale in contrasto con il significato simbolico per l’espressività dell’io è implicita in ogni moda».

Nel libro racconti di come queste figure siano state storicamente “nascoste” e della rilevanza che via via hanno raggiunto, sia nel costruire il look di una sfilata ma anche nel definire l’estetica di un personaggio famoso. Come mai questo shift culturale? La moda ha imparato a scostarsi dalla figura del designer star e a riconoscere lo sforzo di gruppo che è realizzare una collezione?
Imagemaker, consulenti personali, esperti di immagine, curatori di look. Sono solo alcuni soprannomi per uno stylist di moda, una posizione ambigua e, a volte, poco accreditata per i suoi sforzi nel risultato finale. Personalmente ritengo che l’odierno slittamento di valore sia dovuto a due ragioni: la prima è che la figura dello stylist come musa anonima  (vedi Polly Mellen con Richard Avedon, ma anche Joe McKenna con Calvin Klein) e oggi invece pubblicizzata grazie all’amplificazione dei social media, una sorta di status symbol che regala prestigio, aggiunge glamour e, nei fatti, si traduce con “potere”. Il prestigio, anche economico di potersi permettere un “complice” come Law Roach, l’autore dei memorabili look di Zendaya o, nei défilé, una personalità come Lotta Volkova, coautrice con Miuccia Prada dell’outfit tormentone di quest’anno (il tailleur ridotto ai minimi termini giocato sulle rimembranze dei primi anni Duemila) solo dieci anni fa non avrebbe avuto una tale eco. Volendo prendere le cose dal lato buono, si potrebbe anche dire che oggi si tenda a privilegiare nell’industria della moda il concetto di team al posto di creatore solipsista. Si riconosce sempre più importanza ai direttori creativi, ma nello stesso tempo si spinge su un concetto di “inclusività” professionale, per usare un termine già usurato fino alla noia. Inoltre il vero stylist lavora da sempre in una dimensione collettiva: per il suo lavoro e le competenze che ricopre, deve scegliere – a partire dagli abiti – l’hairstylist, il makeup artist, la location, la scenografia.

Antonio Mancinelli, foto di Giovanni Gastel

E a questo proposito, quali sono le caratteristiche di un buon stylist e in cosa si differenzia dallo stilista?
Un bravo stylist dovrebbe esaltare, sia nella moda, sia nella costruzione dell’immagine di un personaggio, lo stile, appunto. Si tratta cioè di riuscire a valorizzare il pensiero di un designer o la personalità di un artista, lucidandola fino a rivelarne l’essenza, per così dire. Se lo stilista produce un suo immaginario, il bravo stylist non dovrebbe mai sovrapporre il proprio, perché quando noi parliamo di più delle modelle dopo una sfilata invece della sfilata o di come era vestita un’attrice invece dell’attrice, lo stylist non ha fatto un buon lavoro. Tant’è vero che occasionalmente vi sono collaborazioni tra stilisti e stylist: questi ultimi possono seguire la costruzione di un abito, decidere di aggiungerne o toglierne un altro per la sfilata, può dare indicazioni riguardo colori, materiali e proporzioni. Il fashion stylist sta diventando il protagonista di quella che possiamo definire come l’era dell’immagine: viene creato un impatto emozionale e relazionale attraverso i contenuti della moda. E sì, c’è il rischio di non enfatizzare più l’abito in quanto tale, ma il modo in cui questo viene indossato, presentato. In qualità di “intermediario culturale” lo stylist occupa una posizione creativa tra il designer e il consumatore, ma non sta semplicemente mediando la moda secondo la visione del designer; le interpretazioni e le disposizioni estetiche dello stilista modellano il modo in cui la moda viene mediata. Eppure questi non hanno libero sfogo, ma sono modellati da complesse negoziazioni simboliche ed economiche con inserzionisti e uffici stampa.

Che differenza c’è tra chi lavora a sfilate, editoriali e campagne pubblicitarie e chi invece lavora con le celebrità, considerando anche quanto sta cambiando l’approccio al corpo nella moda?
La moda è una pratica che riguarda essenzialmente il corpo, come viene presentato e vestito, come si esibisce e quali messaggi contiene e rappresenta. Credo che nella moda e nei lavori editoriali – soprattutto delle riviste mainstream – ancora permanga un atteggiamento piuttosto conservatore nel trattare il tema del corpo, oggi entità sempre più mobile e sottoposta a un culto della diversity che onestamente, alla fine, mi sembra si riduca più a mostrare in passerella un paio di modelle fuori dai consueti canoni estetici. Queste “convenzioni” trasformano la carne in qualcosa di appetibile per la società, spingendo il corpo in un discorso semantico da cui altrimenti sarebbe assente. Purtroppo esiste ancora un potere di sorveglianza dello sguardo che, come insegnava Foucault, è in grado di rendere i corpi docili e autodisciplinati senza bisogno di vincoli esterni. Ecco, il fatto che una plus-size come Paloma Elsesser appaia sulla cover di i-D nella famigerata microgonna di Miu Miu, a me mette molta inquietudine, perché nell’attestare la presenza di fisicità uniche, alla fine ci si assoggetta all’outfit più hot dell’anno. WWD, lo scorso dicembre sottolineava che nelle sfilate per la prossima primavera-estate, oltre il 90 per cento degli stilisti della settimana della moda di Parigi e Londra non includevano modelli diversi dal corpo magro, né l’80 per cento degli stilisti milanesi. Anche a New York, la quantità di designer che non hanno mostrato forme del corpo diverse era del 64 per cento. Invece, nel caso di celebrity stylist, qualcosa si sta muovendo: l’esempio di Sanremo, massima sagra visiva nazional-popolare dove stylist come Susanna Ausoni e Nick Cerioni hanno normalizzato un concetto di virilità del tutto nuovo per alcuni, mi sembra possa rappresentare non tanto un nuovo approccio al corpo (che comunque deve sempre corrispondere alla tirannia della snellezza), quanto ad alcuni comportamenti eteronormati. Discorso in cui però ci stanno anche le giacchette di broccato di Gai Mattiolo per Amadeus.

In un pezzo del 2017, su Business of Fashion si individuava il problema del “total look” sempre più preponderante in un’editoria di settore fortemente in crisi. È una critica molto vera: sempre più spesso si lavora con il total look di un solo marchio e non con il mescolamento di più marchi che funzionava negli anni Novanta. È necessariamente un segnale di decadimento o di mancanza di “libertà” secondo te o piuttosto il segno di un cambiamento nel modo in cui si approccia alla moda?
Quello del total look è un problema creato dalle stesse maison che, con le loro malsane richieste di non essere “confuse” con marchi secondo loro “ inferiori”,  hanno fatto che sì che il ruolo dello stylist editoriale non consistesse che nel riprodurre l’outfit come presentato in passerella. Questa è stata una delle ragioni per cui non solo l’editoria di moda è andata in crisi, ma anche lo stesso consumatore o consumatrice – già abituato da molto a operare secondo la regola-non-regola del mix ’n’ match – non ha più avuto bisogno di trovare ispirazione nei magazine. Si è reato così un abbraccio mortale tra griffe e riviste. Poiché queste ultime devono far fronte a una crescente pressione da parte dei marchi per mostrare i vestiti esattamente come sono apparsi, i servizi sono meno incentrate sull’estro e più sul marketing. Ma ho molta fiducia in un lettorato che, dopo tanti anni di esposizione a un concetto di moda più libera, ormai faccia direttamente del self-styling, fregandosene della stampa specializzata.

Susanna Ausoni, foto di Attilio Cusani

Quali consigli daresti a chi vuole oggi intraprendere questa professione? E soprattutto, quanto di questo mestiere si può imparare a scuola e quanto invece con la possibilità di fare esperienza?
Penso che, come tutti i lavori altamente creativi, c’è la possibilità di coltivare, affinare e soprattutto arricchire la sensibilità di accostare gli oggetti del vestire in forme e contesti non consueti. La chiave per una buona partenza è avere un interesse genuino nello sviluppo di connessioni significative e inedite. Le scuole possono aiutare ad andare più in profondità in questa che secondo me non può che essere una predisposizione innata. I suggerimenti sono sempre gli stessi: smetterla di attaccarsi sullo specchio del bagno biglietti motivazionali con su scritto «Insegui i tuoi sogni!», quando c’è da fare esattamente il contrario. Cioè restare svegli e chiedersi: cos’è che so veramente fare o pensare o organizzare? Magari da un mediocre stylist si può arrivare a essere ottimi consulenti d’immagine, esperti di marketing creativo. Lo ripeto: questo è un consiglio che rivolgo a tutti gli studenti, compresi i miei. L’esperienza può essere utilissima, come avere un mentore che insegni a «rubare con gli occhi». Lo sostiene Susanna Ausoni, mia coautrice del libro. 

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