Attualità | Dal numero

Generazione ansia

Sempre più adolescenti hanno problemi di salute mentale. E per qualcuno è colpa dei telefoni e dei social, come Jonathan Haidt, autore di The Anxious Generation, uno dei libri che ha fatto più discutere negli ultimi mesi.

di Clara Mazzoleni

Su TikTok, riunite sotto all’hashtag #mentalhealth, si trovano tantissime persone che “recensiscono” gli psicofarmaci che stanno prendendo: gli effetti collaterali, i sintomi d’astinenza e tutti gli altri problemi che chi non ha mai avuto a che fare con uno psichiatra non immagina nemmeno. Nei commenti a quei video altre persone parlano delle loro esperienze. È uno scambio di consigli, storie, sfoghi, rassicurazioni, battute. E tante, tantissime domande: domande a cui, il più delle volte, nemmeno gli psichiatri sanno (o vogliono?) dare una risposta. Basta soffermarsi un po’ su uno di questo video perché l’algoritmo prenda nota dell’interesse e inizi a bombardarti di video simili. Diventa impossibile, allora, non notare una cosa: oltre a soffrire di malattie mentali, tutte queste persone condividono un’altra caratteristica. Sono ragazze. Anzi, teenager. Adolescenti, spesso minorenni, spesso ricoverate in strutture psichiatriche dalle quali trasmettono dirette pomeridiane seguite da centinaia di utenti, in cui rispondono alle domande degli sconosciuti, ballano, cantano col lip sync, si truccano. A volte, a queste dirette, partecipano anche le loro mamme, magari ballando insieme a loro.

Quando anch’io sono stata ricoverata in una clinica psichiatrica, ormai quasi vent’anni fa, non mi permisero di tenere il cellulare, anche se ero appena diventata maggiorenne. I cellulari erano vietati, per tutti. Mi chiedo cosa sarebbe successo se, invece, mi avessero permesso di tenerlo, e se quel cellulare fosse stato uno smartphone, e se fosse stato il 2024, e io avessi passato i pomeriggi, stordita da pesanti dosaggi di diversi psicofarmaci che mi venivano somministrati per la prima volta in vita mia, a fare video e dirette, sommersa da commenti sul mio aspetto fisico e il mio comportamento e il mio modo di parlare, e bombardata di domande, cuoricini, complimenti, insulti, inviati da una folla di sconosciuti invisibili.

Nel suo saggio The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness, il sessantenne Jonathan Haidt, docente di psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University e firma delll’Atlantic, sostiene una tesi molto forte, di cui negli Stati Uniti si è parlato moltissimo (il libro è immediatamente diventato un best seller, ma ha anche scatenato tante polemiche): se tra gli adolescenti si è verificata quella che lui definisce «un’epidemia di malattia mentale», che sta colpendo soprattutto le femmine (le persone nate a partire dalla metà degli anni Novanta, in posti diversi del mondo, soffrono di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati più di qualsiasi altra generazione di cui esistano dati confrontabili), non è tanto (o meglio, non solo) perché questi adolescenti vivono attaccati ai social e agli smartphone adesso, ma perché questi dispositivi, e una connessione continua a internet, gli sono stati proposti troppo presto, quando erano ancora dei bambini.

Secondo Haidt, se tra gli adolescenti si è verificata “un’epidemia di malattia mentale”, non è tanto (o meglio, non solo) perché questi adolescenti vivono attaccati ai social e agli smartphone adesso, ma perché questi dispositivi, e una connessione continua a internet, gli sono stati proposti troppo presto, quando erano ancora dei bambini.

Secondo Haidt la responsabilità di quest’epidemia di ansia e depressione tra gli adolescenti (che all’inizio del libro dimostra con una serie di dati) è da imputare a coloro che questi dispositivi e social media li hanno pensati, realizzati e venduti senza fornire istruzioni o creare limitazioni per tutelare i minori, anzi, al contrario, progettandoli appositamente per catturare la loro attenzione e renderli dipendenti (per vedere i video di un sito porno basta flaggare una casella in cui dichiari di avere più di 18 anni, per registrarti ai social basta fingere di averne più di 13).

Ma la “colpa” è anche i genitori che, da una parte, nel mondo reale, sono diventati troppo protettivi, dall’altra, nel mondo virtuale, sono completamente assenti: hanno dato in mano ai loro figli quella che è praticamente una droga pesante e gli hanno detto «mi raccomando, non esagerare». Droga di cui, tra l’altro, magari, sono dipendenti anche loro. Ma come sottolinea Haidt, un conto è diventare dipendenti da uno smartphone e dai social media da adulti, un conto è diventarlo in un’età fondamentale per lo sviluppo, quando la corteccia prefrontale è ancora fragilissima e plasmabile. È quello che definisce “the Great Rewiring”, che tradotto suona come “il grande ricablaggio”, di cui sono stati vittima i nati dopo il 1995. Ovviamente, molto spesso, il genitore si ritrova a permettere ai figli di usare o possedere uno smartphone e scaricare Instagram e TikTok perché “costretto” delle pressioni esterne: «Il mondo si è riconfigurato così che i genitori che oppongono resistenza condannano i loro bambini all’isolamento sociale», scrive Haidt. Tutti i bambini hanno il cellulare, tutte le bambine hanno Instagram, eccetera.

L’iPhone è arrivato nel 2007, i like nel 2009. Prima di quel momento i social servivano per spiare le vite degli ex compagni di classe e chattare gratis con gli amici. L’avvento dei like ha completamente stravolto le dinamiche dei social media: non si è più parlato di amici, ma di follower. Il colpo di grazia, soprattutto per le femmine, è arrivato con la letale aggiunta della telecamera frontale, nel 2010, e poi l’acquisizione di Instagram da parte di Facebook, nel 2012, che ha fatto esplodere la popolarità del “social delle immagini”. «La Gen Z», riassume Haidt, «è diventata la prima generazione nella storia ad attraversare la pubertà con un portale in tasca che li richiama, allontanandoli dalle persone fisicamente vicine, in un universo alternativo che crea dipendenza, instabile ed eccitante. Avere successo in quell’universo richiede loro di dedicare perennemente una grande parte della loro coscienza a gestire quello che diventa il loro brand online». La presenza perenne dello smartphone, insomma, impedisce loro di fare esperienza della realtà e di acquisire le capacità che saranno necessarie per affrontare la vita negli anni a seguire.

La Gen Z è diventata la prima generazione nella storia ad attraversare la pubertà con un portale in tasca che li richiama, allontanandoli dalle persone fisicamente vicine, in un universo alternativo che crea dipendenza.

Haidt cita un racconto del 1961 di Kurt Vonnegut, “Harrison Bergeron”, ambientato in un futuro distopico ultra-egalitario in cui nessuno è autorizzato a spiccare, e quindi a essere più intelligente, esteticamente piacevole o fisicamente abile degli altri. Chiunque presenti un alto QI è costretto a indossare un auricolare che vibra molto forte ogni 20 secondi con una varietà di rumori progettati per interrompere la concentrazione, impedendo così le persone più dotate sviluppino la loro intelligenza e si mantengano nella media. È una metafora su cui riflettere: sia perché il rettangolo che portiamo sempre con noi e che vibra in continuazione ricorda molto quell’auricolare, sia per come i social hanno fatto sì che, molto spesso, a raggiungere successo, fama e ricchezza proprio grazie ai social (e quindi con un mezzo accessibile a tutti) siano persone completamente prive di particolari doti, se non quella di produrre incessantemente contenuti.

Incapaci di concentrarsi, quindi, i ragazzini cominciano troppo presto a preferire alle avventure con gli amici veri quelle online con gli amici virtuali. Nella realtà esterna si ritrovano ad assumere quella che Haidt chiama “modalità difensiva”, in opposizione alla “modalità esplorativa”. Spesso diventano dipendenti dalla pornografia, troppo facile da raggiungere e troppo vasta da esplorare, con ovvie conseguenze sulle loro capacità di relazionarsi e sul loro rapporto con il sesso. Ma, come sottolinea Hadit, sono le femmine a stare peggio: oltre agli ovvi pericoli di pubblicare le loro foto sui social, rischiando di essere approcciate da sconosciuti con profili fake o che quelle immagini vengano utilizzate nei realisticissimi video deepfake creati con l’AI, le ragazze soffrono a causa della valutazione estetica a cui sono perennemente sottoposte, ora non più soltanto nella vita reale ma anche sui social, dove il confronto non è più con le altre ragazze del paese o della città, ma è mondiale, e con ragazze che magari utilizzano dei filtri, imprimendo nelle menti modelli di perfezione e bellezza irraggiungibili perfino dalle super bellissime.

E poi c’è la propagazione epidemica: considerando che depressione e ansia sono più contagiose di una buona salute mentale, e dato che le ragazze parlano di più delle loro emozioni dei ragazzi, e che attraverso i social hanno modo di farlo, dovevamo aspettarci un boom di depressione e ansia, che è proprio quello che si è verificato. Haidt cita anche i casi della sindrome di Tourette e del disturbo dissociativo dell’identità (a cui potremmo aggiungere l’autismo e l’Adhd), disturbi mentali o neurodivergenze diventate “popolari” su TikTok grazie al successo delle loro carinissime portavoce, un fenomeno che ha portato uno stuolo di adolescenti ad auto-diagnosticarsi e, in alcuni casi, pregare i genitori di essere ricoverati. Alla suggestione di avere tutti i sintomi (spesso, inconsapevolmente, iniziando a “recitarli” finché non diventano tic automatici) si unisce anche un conscio o inconscio desiderio di popolarità o di far parte di una certa community. Quel che è certo, è che, dal 2013, i reparti psichiatrici degli Stati Uniti hanno registrato un aumento esponenziale di ragazze ricoverate con reali disturbi mentali (secondo le presidenti della Società italiana di Psichiatria, in Italia di più di 700 mila tra ragazzi e ragazze ha un problema di salute mentale).

Nello stesso capitolo Haidt parla anche di disforia di genere: sottolinea come, storicamente, i tassi di disforia di genere fossero sempre stati più alti tra le persone nate in corpi maschili, ma che negli ultimi anni c’è stato un rapidissimo aumento tra le persone nate in corpi femminili, specialmente tra le adolescenti della Generazione Z. Considerazioni che non sono piaciute alla comunità trans: primo perché questa parte del discorso si presta ad essere impugnata dalle famiglie di destra, con lo spauracchio di vedere i loro figli “diventare trans per colpa dei social”, secondo perché potrebbe anche essere interpretato come un dato positivo: vedere delle coetanee che affrontano la riassegnazione di genere può stimolare il coraggio per un coming out che, magari, prima, veniva rimandato o addirittura mai affrontato.

Non è questa l’unica critica ricevuta da Haidt: in un pezzo pubblicato su Nature, Candice L. Odgers, docente di psicologia all’Università della California, afferma che non ci sono prove scientifiche sufficienti a sostegno delle tesi di Haidt e le reputa anzi nocive, perché distolgono da altre possibili cause di ansia e depressione. Odgers sottolinea anche la differenza tra causa e correlazione: per semplificare, chi ci assicura che siano gli smartphone e i social a causare ansia e depressione, e non che chi soffre di ansia e depressione tenda ad usare di più gli smartphone e i social? E poi: Gen Z e Gen Alfa hanno tanti motivi per essere ansiosi e depressi, dalla crisi climatica all’esposizione alla violenza, dall’epidemia di oppioidi al razzismo. Ma Haidt aveva previsto quest’obiezione e la confuta già nel libro, sottolineando come le minacce esterne abbiano sempre reso i giovani più uniti, grintosi e combattivi, mentre le malattie mentali sono il frutto dell’isolamento individuale, la sensazione di essere soli, senza speranza, inutili, così inutili da diventare indifferenti a ciò che succede nel mondo.

A prescindere da discussioni accademiche su statistiche e metodologie, che la salute mentale sia un problema grave che colpisce moltissime persone è ormai un’autoevidenza, persino una banalità. Resta però il fatto che manca ancora un’iniziativa politica che contribuisca, se non a risolvere il problema, quanto meno ad affrontarlo. In Italia era sembrato un piccolo passo avanti l’istituzione del cosiddetto “bonus psicologo”. Ma tra fondi limitati e ritardi burocratici, gli effetti positivi di questo sussidio stentano ancora a farsi vedere.

Attivissimo su X, Haidt ha risposto alle critiche con questo monito: «Se ascoltate il nostro allarme e si scopre che avevamo torto, i costi saranno minimi e sopportabili. Ma se si ascoltano gli scettici e si scopre che avevano torto loro, allora i costi saranno molto maggiori e le soluzioni più difficili». Nel caso in cui non voleste rischiare, queste sono le soluzioni pratiche che andrebbero adottate in massa dai genitori: vietare l’uso dello smartphone prima dei 14 anni, vietare di aprire account sui social media prima dei 16 anni, vietare del tutto lo smartphone a scuola (anche durante le pause), concedere ai propri figli più indipendenza e libertà di giocare senza supervisione e affidare loro maggiori responsabilità. Resta da capire come salvarli, visto che nemmeno io, che ho trascorso una serenissima infanzia e adolescenza imbambolata davanti alla tv, ho ancora trovato l’energia mentale e la concentrazione necessaria per affrontare il capitolo del libro che contiene le istruzioni per liberarsi dalla dipendenza dallo smartphone e dai social attraverso una serie di “pratiche spirituali”.

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, dedicato a “La minore età”, agli adolescenti e al loro mondo: lo trovate nel nostro store online, qui, e in edicola.