Stufa dei cinecomic, Hollywood sembra aver già scelto la sua prossima ossessione: la vita, la morte e i miracoli dei musicisti.
«Mi hanno detto che la mia risata non era abbastanza estrema. Allora ho bevuto un’intera bottiglia di Jack Daniel’s e sono finalmente riuscito a ottenere un suono perfettamente idiota»: come succede spesso (sto pensando a Kieran Culkin e Roman Roy), l’attore e il suo ruolo si fondono in un’unica entità: quando Tom Hulce racconta questo aneddoto sembra ancora vestire i panni di Wolfgang Amadeus Mozart, o Wolfi, come lo chiama nel film la sua adorata Costanze. Amadeus di Milos Forman è un film di 40 anni fa che racconta, anzi, reinventa, l’ascesa e la caduta del celebre compositore nella Vienna del XVIII secolo e che ai tempi vinse otto premi Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Attore. Il 24, il 25 e il 26 marzo torna nei cinema italiani per la gioia di tutti i suoi fan.
Tutta invidia
Diretto dal regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo, Amadeus parla di talento e creazione artistica, rientrando nella categoria di quelli che mi piace chiamare i “racconti dell’invidia”, come l’Amica geniale e Il soccombente di Thomas Bernhard, anche se non si può dire che tra Salieri e Mozart ci fosse un vero e proprio rapporto di amicizia. Così come in questi romanzi, il film racconta quella particolarissima forma di invidia che soltanto certe persone hanno la sfortuna di provare nella vita, e che non ha nulla a che fare con ciò che di solito fa rosicare la gente (soldi, cose, case, viaggi, bellezza, amore, famiglia, figli o salute): è l’invidia per il talento, per il genio, per la capacità di esprimersi e creare che, per tutta la vita, e nonostante tutti i suoi successi, Lenù continua a provare nei confronti di Lila.
Se Lenù parte in svantaggio e poi recupera, di fatto “vincendo” la “gara della vita” con la sua amica, il povero Antonio Salieri, con cui ho sempre empatizzato, fallisce miseramente, e per questo è un personaggio ancora più patetico e affascinante. In Amadeus, il compositore italiano interpretato da F. Murray Abraham (personaggio ripreso dall’omonima opera teatrale di Peter Shaffer), ha un solo e unico desiderio: essere un grande artista, un genio, un compositore divino. Soltanto questo gli interessa e per ottenere questo sacrifica tutto e promette di preservarsi casto, onesto e umile (una specie di patto col diavolo, che in questo caso però è Dio). Tutto crolla quando a un certo punto, finalmente, Salieri conosce dal vivo il giovane e già famosissimo Mozart, che scopre con orrore essere una «ridanciana e oscena creatura» (parole sue), che è un modo gentile per dire un completo coglione, che però è evidentemente in grado di creare, senza alcuno sforzo, armonie sublimi.
Oltre al danno, la beffa: questo tizio con la risata da scemo non è affatto casto, non è umile e nemmeno onesto. Eppure, lui sì, è un genio. Il suo successo perseguita Salieri e lo costringe a interrogarsi sull’unica vocazione della sua vita (e, alla fine, lo manda al manicomio, letteralmente: è da lì che l’italiano ci racconta la sua storia, dopo aver tentato il suicidio). «La sola cosa che avessi mai desiderato era poter cantare Dio», racconta il decrepito compositore che nessuno ricorda, «una bramosia che Lui mi aveva dato, per poi rendermi muto. Perché? E se Lui non voleva che lo esaltassi con la musica, perché instillarmene il desiderio, come una smania in ogni mia fibra, e poi negarmi il talento?». Una qualche forma di rivincita, però, alla fine c’è stata: a vincere l’Oscar nel 1985 per la sua interpretazione nel film è stato F. Murray Abraham e non Tom Hulce.
L’amico geniale
Il drammatico racconto di Salieri si scontra con la meravigliosa leggerezza, il vitalismo, l’erotismo e la spontaneità con cui Wolfi, grazie al suo naturale talento, si può permettere di approcciare la creazione artistica e anche la vita. Tra parrucche rosa, pizzi, fiocchi e giacche di velluto lilla, Mozart sfoggia in continuazione look meravigliosi, mentre Salieri, brutto e arcigno, indossa solo bianco e nero, come un prete. Mentre Salieri rosica e ci ammorba con le sue pedanti riflessioni teologiche e i suoi teatrali dialoghi con Gesù Cristo in croce, Wolfi ama ed è amato (dalla dolcissima Costanze, interpretata per puro caso dalla perfetta Elizabeth Berridge perché l’attrice scelta per il ruolo, Meg Tilly, ruppe il legamento della gamba il giorno prima delle riprese), ride, festeggia, si ubriaca, spreca soldi, tradisce, fa un figlio, lotta con la presenza incombente e spaventosa del padre, litiga con gli imparruccati delle corti, delle chiese e degli arcivescovati, e intanto crea i suoi immortali capolavori, di cui nel film vediamo meravigliosi frammenti, con scenografie e costumi e interpretazioni da sogno: Il ratto del serraglio, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Il flauto magico. E alla fine, l’incredibile scena della composizione del Requiem, in cui un Salieri sadico e sbigottito assiste in diretta alla creazione del capolavoro del genio ormai moribondo, sudatissimo e delirante in un lettone con la testiera rosa decorata di fringuelli, fiori e nastri.
Non ci sono dubbi sul fatto che il film non avesse alcuna intenzione di essere filologicamente e storicamente preciso (in realtà, purtroppo, pare che Mozart fosse un tizio molto più palloso e intellettuale), così come non ci sono dubbi riguardo al suo obiettivo, perfettamente raggiunto, e forse pure oltrepassato, di celebrare prima di tutto l’arte, la musica: Amadeus è un film-concerto in cui la musica è sempre protagonista, che sia opera lirica o colonna sonora, un film che cambia per sempre il nostro modo di sentire e ascoltare Mozart. Tornando nei cinema italiani 40 anni dopo (il 24, il 25 e il 26 marzo) negli anni dei biopic superficiali, ultra-pop e, a detta di molti, poco riusciti come A Complete Unkown (con Timothée Chalamet – Bob Dylan) o Back to Black (con Marisa Abela – Amy Winehouse), Amadeus ci ricorda cosa significa raccontare un grande artista mescolando invenzione e realtà pur di creare una storia perfetta, ma anche come sia possibile cucire un film intorno alle sue opere, mettendole al centro.
Il finale perfetto
Ma Amadeus è anche un film sulla leggerezza e sulla pesantezza, su come una non possa esistere senza l’altra: se le ambizioni di Salieri si spingono così in alto da risultare ridicole, se la sua sofferenza è il sintomo di un ego ferito che non riesce ad accettare la sua mancanza di talento, e questa incapacità di arrendersi, questa ossessione che lo accompagna fino alla vecchiaia lo rende ancora più ottuso, dall’altra parte Wolfi paga i suoi sbalzi d’umore con la malattia, la povertà, la solitudine e la morte, finendo seppellito in una fossa comune. E poi, ciliegina sulla torta (e coi suoi rosa e le scenografie dai colori pastello, Amadeus mi ha sempre fatto pensare a una torta a strati, di quelle che si vedono in Marie Antoinette di Sofia Coppola) lo strepitoso finale, in cui Salieri – dopo che viene portato via da un inserviente del manicomio che conclude il suo pomposissimo racconto ricordandogli che «è ora di andare al cesso» – sfila in mezzo ai pazzi con la sua sedia a rotelle, si auto-proclama patrono dei mediocri e ci benedice e perdona: «Mediocri, ovunque voi siate… io vi assolvo. Vi assolvo tutti». E alla fine, prima dei titoli di coda, quell’inconfondibile, idiotissima risata.

Leggenda inquietante, maschera funerea, ma anche volto scelto per i manichini su cui esercitarsi a fare la rianimazione cardiopolmonare: una storia che ancora oggi ispira chi scrive, come dimostra La ragazza che annega.