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Per Alessandro Bertante l’apocalisse sarà un rave infinito

È quello che succede nel suo nuovo libro, E tutti danzarono. Di questo, e di Milano, di routine di scrittura e di maranza che non ballano, abbiamo parlato con lui.

Pieter Brueghel il Giovane, "Il ballo di san Giovanni a Molenbeek" (1592), opera ripresa nella copertina di "E tutti danzarono"

C’è in libreria, da pochi giorni, un romanzo notevole: E tutti danzarono di Alessandro Bertante, pubblicato da La nave di Teseo. Il protagonista è Ivan Boscolo, professore universitario milanese di mezza età orfano, cinico e alcolizzato. Divorziato da Francesca, padre dell’adolescente Micol. Sopravvive a Milano d’agosto, fa caldissimo, quarantadue gradi all’ombra. Beve tre bicchieroni di vodka tonic belli carichi ogni pomeriggio, quattro nei momenti di malinconia, i più frequenti. Il sindaco di Milano, un tipo fotogenico, ha organizzato nei parchi cittadini un rave gratuito, con epicentro al Parco Sempione. Arrivano migliaia di giovani da tutta Europa con i carri e gli impianti audio. La città viene presa in ostaggio da ballerini adolescenti posseduti, disumanizzati da un sortilegio arcano. Altri giovani, immuni al virus del ballo, approfittano del caos per delinquere. Le strade sono intasate, i telegiornali e i siti internet descrivono scenari apocalittici, Micol non risponde più al telefono. Incontriamo Alessandro Bertante per fare due chiacchiere, fissa l’appuntamento al Bar Basso, ordiniamo due drink e iniziamo a parlare.

ⓢ Come ti è venuta l’idea di scrivere E tutti danzarono?
Volevo scrivere un romanzo in prima persona ambientato a Milano. Ho scoperto che la prima persona mi viene molto meglio. Volevo un’estate calda, però non avevo ancora trovato una chiave. Poi mi imbatto in un libro di antropologia, di cui sono appassionato, dove leggo di questa piaga del ballo di Strasburgo del 1518, e mi è sembrata una cosa formidabile. La storia è clamorosa, un sacco di persone iniziano a ballare insieme a fine luglio, senza un motivo logico, e smettono a settembre. Morirono a centinaia.

ⓢ Ah, quindi è un fatto storico?
Sì, è un fatto storico. Il quadro di Brueghel in copertina ritrae proprio quell’episodio.

ⓢ Ci sono testimonianze dirette?
Tantissime, c’è addirittura Paracelso che descrisse il fenomeno come coreomania. Però nessuno ha mai capito cos’è successo veramente. Hanno azzardato delle spiegazioni, un fungo, una trance collettiva, però nessuno lo saprà mai, le fonti storiche coeve sono inquinate. Mi sembrava che trasportare quella roba lì a Milano, con centinaia di migliaia di persone, nelle nostre estati sempre più calde, avesse una potenza straordinaria, e da lì sono partito.

ⓢ L’hai scritto d’estate?
L’ho scritto in due estati. Lavoro tanto, sono direttore del triennio di cinema e animazione in Naba. Questo mi impegna tutti i giorni, perciò agosto è il mese delle mie scritture.

ⓢ Ivan Boscolo, la voce narrante di E tutti danzarono, è il figlio di Alberto, protagonista di Mordi e Fuggi – il romanzo delle BR (penultimo libro di Bertante, uscito nel 2022, finalista al premio Strega). Avevi già in mente di iniziare una saga?
No, non l’avevo previsto, però mi piaceva l’idea che ci fosse un filo conduttore che mi legasse al libro precedente. Poi avevo bisogno di un’arma, di un oggetto che facesse da tramite fra le generazioni, e la Luger mi sembrava perfetta. Io sono un po’ ossessionato dalle dinamiche generazionali, sono figlio di una generazione di mezzo, sono nato alla fine degli anni Sessanta, la famosa Generazione X, novecenteschi come espressione, metodo di ragionare, dialettica. Poi ci siamo trovati maturi in un’epoca completamente aliena. Questo lascito generazionale mi sembrava importante anche significarlo praticamente, con una presenza. All’inizio con un’assenza, con la morte del padre; e poi invece con il recupero dell’oggetto, la pistola.

ⓢ E poi c’è l’ultima generazione, quella di Micol. I giovani non brillano per acume, nel tuo ultimo libro.
Io conosco tanti ventenni, li vedo a scuola tutti i giorni. Non esistono generazioni migliori o peggiori, come pensavano i sessantottini, sbagliando. Esistono generazioni fragili. Questa è una generazione molto fragile, secondo me. Ma quando appare il brillante della classe, e c’è sempre, ti sconvolge. Quest’anno ho avuto cinque film di studenti del mio triennio in finale ai maggiori concorsi cinematografici, a Venezia, a Roma, a Lisbona, a Tirana, a Firenze, hanno vinto premi. Non erano competizioni scolastiche, erano festival dove un ventunenne sfida un quarantenne, e vince. Le eccellenze ci saranno sempre.

ⓢ Forse, avendo lo scibile umano sempre in tasca a disposizione, i mediocri diventano sempre più mediocri e chi ha più talento brilla ancora di più?
Può darsi che sia così. In una standardizzazione verso il basso, quando c’è uno che si eleva spicca come un angelo.

ⓢ Pensi che i giovani siano meno idealisti di epoche passate o anche l’attivismo anni Settanta era una moda, una rappresentazione, una posa più che un vero impegno politico?
Per alcuni sì, per altri era una faccenda serissima. Un certo conformismo ci fu, soprattutto in alcuni strati della borghesia urbana, diventarono tutti maoisti all’improvviso. Però ci furono anche persone che ci credevano tanto. Adesso l’impegno politico è considerato qualcosa di molto vetusto, però il problema è che manca un’idea di futuro. A un certo punto lo dice, nel libro, Ivan: quando ero piccolo eravamo quattro miliardi di persone, ecologia era una parola esotica e l’Europa era il centro del mondo. Adesso siamo uno straccio di periferia, non ci calcola più nessuno, siamo sovrappopolati, c’è un’evidente crisi climatica: che idea di futuro puoi avere? Dicono che il mio è un romanzo distopico, ma io non sono d’accordo.

ⓢ È molto realista, al contrario, secondo me.
Io credo che se vent’anni fa avessimo pensato all’oggi, l’avremmo definito una distopia. La nostra realtà è una distopia, prendi per esempio adesso quei tre o quattro grandi proprietari americani delle multinazionali tech che si sono schierati con Trump. Il problema non è nemmeno il loro orientamento politico, il problema è che quel potere ce l’avevano già, hanno semplicemente cambiato schieramento. Questo è un classico delle distopie, i concentramenti di potere e anche il controllo sulle persone, sui loro dati, sul loro modo di pensare.

ⓢ Quindi il disimpegno politico è una conseguenza inevitabile? Oggi intanto non esiste più l’ascensore sociale, il motore del boom economico. Anche un ragazzo diplomato, con origini umili, poteva diventare dirigente d’azienda. Adesso il mondo del lavoro è intasato, è tutto bloccato, e poi io noto una fragilità psicologica incredibile. Il Covid ha lasciato delle ferite profondissime. Ti do solo un dato, da professore: i casi di stati ansiogeni e attacchi di panico sono aumentati del 70 per cento nella fascia d’età fra i sedici e i ventidue anni. Questo dà un’idea del trauma.

ⓢ Forse c’entrano anche i social? C’è una bella frase nel tuo libro: la partecipazione è il più vile degli inganni.
Ce l’avevo con Gaber. L’illusione della partecipazione è stato l’inganno peggiore dei social. Uno si iscrive e pensa di partecipare a qualcosa, in realtà vede i soliti quindici sfigati che gli propone il suo algoritmo, sempre gli stessi. Ci si illude di avere un pubblico, e questa illusione ti dà la prossimità di un’audience, che in realtà è inesistente. Questo crea disillusioni continue, rancori, anonimato feroce. I social sono un luogo di barbarie.

ⓢ Tu li usi?
Uso solo Instagram, in modo molto ludico. Il resto mi sembra una gabbia di malesseri.

ⓢ Ultimamente si pubblicano moltissimi libri accomunati da una certa sfiducia verso il futuro, una consapevolezza che stiamo andando a sbattere, narrazioni nichiliste spesso premiate da pubblico e critica. Secondo te oggi è possibile scrivere letteratura ottimista?
A me viene naturale descrivere scenari tragici, però non nego che ci possano essere anche altre prospettive. Se tu ti poni il problema del divenire storico, non puoi essere ottimista. Chi si pone quel problema lì ha una postura, più che di pessimismo, di grande realismo: che ci sia stato negli ultimi cinque anni un arretramento di tutte le lotte civili mi sembra evidente, non è un’opinione. Il dibattito politico è scaduto a livelli imbarazzanti. Non è questione di destra e sinistra, è una questione di maturità del potere politico e anche del pubblico, soprattutto. Io ce l’ho moltissimo con il pubblico.

ⓢ Perché?
Perché è il pubblico che fa il politico, qualcuno li vota questi nuovi mostri. Guarda Trump, che vittoria ha avuto. Gli Stati Uniti sono sempre stati una cartina di tornasole molto importante. Da una parte avevamo Trump, dall’altra c’era un vecchio rimbambito, sostituito all’ultimo. Mi sembra una situazione dove il pessimismo non può che essere tale.

ⓢ Non ti immagini un mondo dove fra cinque anni tutti i partiti ecologisti vincono le elezioni, e ci coalizziamo per un bene comune?
Chi lo sa. Per ora, non credo. Ci sono troppi interessi in ballo.

ⓢ In E tutti danzarono rifletti parecchio sul cambiamento climatico. Bellissima la scena dove descrivi quel manipolo di persone fintamente hippie che fanno yoga in strada.
È tratta da una storia vera. Chiusero per lavori la via dove abito, e io li vedevo meditare in mezzo allo schifo, c’era Viale Argonne a tre metri, potevano andare di là sull’erba invece di stare fra sputi e cicche di sigarette, respirando l’odore dei tubi di scappamento. Sono fenomeni da fine impero, da miti ellenistici. Questi fanno yoga in strada e pensano di avere una marcia in più degli altri. In realtà era una scena anche esteticamente tristissima, gente male in arnese.

ⓢ Nel tuo libro c’è questo rave infinito. Mio padre dice che in discoteca vige la repubblica socialista delle due del mattino. Hai voluto raccontare un rave anche come elogio alla club culture, una delle poche sottoculture rimaste in un mondo sempre più omologato?
Sono cresciuto negli anni Ottanta, quindi sono un post punk, però ho vissuto la club culture. Avevo vent’anni quando esplose la musica house, ho partecipato a parecchi rave. Della dimensione dei rave mi piaceva la sensazione di massa inerte, soprattutto a una certa ora tarda del mattino, un po’ zombiesca.

ⓢ Milano è molto presente nel tuo ultimo libro, è quasi un personaggio. Tu sei nato a Alessandria però, vero?
Sì, ma non ci ho mai vissuto. Mia mamma era di Alessandria e voleva partorire là. La toponomastica nel mio libro è fondamentale, perché io ti do tanto realismo e tu, lettore, ti devi immedesimare, devi pensare “ah! anch’io vado lì”. A un certo punto tutto questo realismo deve aprirsi a un incanto. E se sei stato molto realistico prima, l’incanto è più forte. Perché succede qualcosa di inaspettato, di inspiegabile, mentre tu eri in un contesto di puro realismo. Più che realismo magico mi piace chiamarlo realismo impossibile, perché del realismo magico mi manca completamente l’indole sudamericana, sono un europeo, direi berlinese come impostazione.

ⓢ Le famose feste negli scantinati di Kreuzberg che citi nel tuo libro…
Negli anni Novanta sono andato tante di quelle volte a Berlino. Era una città straordinaria, in continua trasformazione.

ⓢ Come è nata la tua passione per i movimenti politici degli anni di piombo?
Amici, famigliari, amici di famiglia. Anni fa mi sono laureato con una tesi sulla stampa underground negli anni Settanta a Milano, soprattutto Re Nudo, che poi è diventata un libro. Pochi sanno che le Brigate Rosse all’inizio, per i primi tre anni, erano un fenomeno milanese.

ⓢ Sei d’accordo con la teoria di Pinketts secondo cui gli anni di piombo sono iniziati nel 1969 con Piazza Fontana e sono finiti nel 1981, quando tutta Italia è rimasta incollata per giorni alla tv a seguire i tentativi di salvataggio del piccolo Alfredino caduto nel pozzo?
È una generalizzazione, ma non priva di fondamento. Con Piazza Fontana avviene la radicalizzazione, moltissimi decidono di passare alla lotta armata dopo quell’attentato. Era già nell’aria, ma se l’attentato è opera dei servizi segreti, e questa è storia, non lo dico io, è agli atti, l’hanno fatto proprio per far sì che molti passassero alla violenza, volevano alzare il livello dello scontro. E che gli anni di piombo finiscano con Alfredino è altrettanto vero, perché la spettacolarizzazione della televisione chiude un’epoca e ne apre un’altra.

ⓢ Secondo te oggi, in questo contesto, si potrebbe riformare una lotta armata giovanile o siamo troppo anestetizzati, è impossibile?
Quella roba lì non si può più vedere, non si riformerà più, perché alla fine degli anni Sessanta c’erano dei momenti, delle cause strutturali che non esistono più. Altre forme di estremismo magari sì, io credo che prima o poi, quando la crisi ecologica sarà ancora più evidente, ci saranno dei guerriglieri climatici. C’è un altro problema, logistico: quando parlavo con le Br, ma anche quando parlavo con i balordi, mi raccontavano di tre rapine al giorno. E non li beccava nessuno. Le banche erano piene di soldi. Adesso, qualsiasi cosa tu faccia, con tutte le telecamere che ci sono ti arrestano dopo tre minuti.

ⓢ Forse le nuove Br dovrebbero lanciare una criptovaluta. Dal tuo libro, dove parli della Coloniale in Corso Genova e del Belle Aurore, e dalla tua scelta del bar per il nostro incontro, deduco che anche tu pensi che Milano stia un po’ svendendo la sua anima.
Intanto, una premessa: io ho un amore sconfinato per Milano, ma spesso questo amore non è stato corrisposto. Milano negli ultimi anni è diventata una città davvero poco inclusiva, ha le pretese della metropoli europea con gli stipendi della Grecia. Questo non può funzionare sul lungo periodo. Forse proprio qui, fra un po’, potrebbero nascere movimenti violenti di protesta.

ⓢ La rivoluzione delle partite Iva?
La prima cosa su cui bisogna lavorare è aumentare gli stipendi di tutti. Se iniziamo a alzare gli stipendi dei comunali poi le aziende private dovranno adeguarsi, per un semplice fatto di concorrenza. Ci sarebbe anche il problema del traffico e dell’inquinamento. A Londra l’ingresso in centro costa credo dodici pound, e vanno tutti in bici a lavorare. Più denaro ai lavoratori, che sembra una frase novecentesca ma è attualissima. È difficile campare a Milano con duemila euro al mese, e figurati che la maggior parte della gente ne guadagna mille e duecento o mille e trecento, quindi… Credo che E tutti danzarono sia un romanzo fortemente politico, perché Ivan si dilunga in analisi politiche partendo dalle immagini che vede in strada, dalla vita di quartiere. 

ⓢ Il tuo protagonista si perde anche in riflessioni sui maranza. Come mai?
Volevo mettere un po’ di ordine sulla definizione originale di maranza. C’è questo articolo del Corriere, uscito poco tempo fa, che fa risalire la nascita a una recente crasi fra marocchino e zanza, ma non è vero. Maranza è da sempre, in dialetto milanese, l’accezione negativa dello zanza, che sarebbe il nome affettuoso per descrivere un ladruncolo, tutto sommato innocuo. Invece maranza è il termine che indica uno zanza, ma più pericoloso.

ⓢ Perché i maranza sono immuni al contagio del ballo?
Perché li ho trovati motivati, e questo li fa essere vaccinati dalla mania, come i black bloc.

ⓢ Gli “anarchici greci”, eterni colpevoli.
Esatto. Entrambe le categorie sono motivate, quindi non entrano in trance, non sono ammaliate. L’identificazione negativa di maranza, che è un termine dispregiativo, per loro è un termine identitario. Loro dicono “noi siamo i maranza, veniamo e vi facciamo un culo così”. Trovo che la scarsa integrazione sia inevitabile, ti parlo di una zona che conosco molto bene perché sono cresciuto lì vicino, la zona di Segesta e San Siro. Un tempo era in mano completamente alla malavita calabrese: brutti, bruttissimi, eroina soprattutto. Sono morti quasi tutti ammazzati o di overdose. Adesso quelle case popolari sono in mano agli arabi, ma il fenomeno criminale c’è sempre stato. I maranza sono più appariscenti, perché fanno chiasso, ma in realtà erano molto più pericolosi quelli di prima. Però è stupido, e la sinistra in questo sbaglia, non ammettere che c’è un tema di microcriminalità legato all’immigrazione. È un dato statistico, e con i dati statistici non si può ragionare: sono così e basta. Di per sé non è un problema, è un problema però ammetterlo.

ⓢ Vabbè, cambiamo argomento. Che cosa ne pensi dello stato di salute della letteratura italiana?
È miserello. Il pubblico è cambiato, è diventato molto conformista. Lo dico e ci tengo a dirlo: lo scrittore maschio è quasi vilipeso in questo momento, un certo tipo di narrativa femminile è diventata la narrativa commerciale tout court. Tipo le saghe familiari. Però, attenzione: sempre del Sud Italia, perché piace l’esotico italiano, soprattutto all’estero. Non è un bel momento per gli scrittori in generale, anche perché, come disse Saramago, il futuro della letteratura sarà quello che è sempre stato, a parte in questi ultimi anni: un bellissimo passatempo per una minoranza della popolazione. La bolla della lettura di massa è una bolla che sostanzialmente inizia negli anni Ottanta e finisce dopo il Duemila, adesso siamo in fase discendente

ⓢ Mmm. Forse un po’ prima, negli anni Settanta la lettura non era un passatempo di massa?
No, no, è un fenomeno successivo. Il primo grande successo commerciale è La storia di Elsa Morante, poi ci furono gli anni Novanta, dove Brizzi poteva vendere due milioni di copie con un romanzo d’esordio. Susanna Tamaro ne vende tre milioni, stiamo parlando di quelle cifre lì.

ⓢ Melissa P.
Melissa, certo. Anche Paolo Giordano, due milioni di libri venduti. Oggi un fenomeno planetario, come per esempio quello di Scurati, vende trecentocinquantamila copie, non due milioni.

ⓢ La letteratura finirà come i vinili?
Non oggi, ma fra una decina d’anni sì. Per i miei studenti, tutti ventenni, l’oggetto libro è alieno. Completamente alieno. E se glieli assegni da leggere, è un problema.

ⓢ Figuriamoci i giornali…
Eh, sì. La comunicazione dello smartphone è una comunicazione compulsiva. Tre, quattro secondi al massimo su ogni immagine che vedi. Scrollare ti rende incapace di soffermarti, sei abituato a questo bombardamento di immagini, visioni e testi. Entrare dentro a una forma romanzo poi ti sembra troppo complesso.

ⓢ Infatti i libri lunghi spaventano. Tu ci pensi, quando scrivi? I tuoi romanzi sono brevi per scelta, per venire incontro al generale abbassamento della soglia d’attenzione?
No, no, mi piace questa lunghezza qui perché mi piacciono le cose in tre giorni, in due giorni, mi piacciono questi viaggi brevi del protagonista. E tutti danzarono è quasi una favola, non ci sono flashback, è lui che va avanti dritto. Mi piace questa formula qua perché come struttura narrativa è molto più gestibile, e secondo me anche più empatica nei confronti del lettore.

ⓢ Com’è la tua routine di scrittura?
Io scrivo al mattino.

ⓢ Presto?
No, presto no. Scrivo molto bene dalle nove alle undici, mi piace scrivere di mattina. Talvolta la sera rivedo, ma non scrivo. La sera, anche quando scrivo, sono enfatico, e non va bene. Siccome ho una prosa molto asciutta, molto ritmata e credo molto pulita, non mi piace l’enfasi. Io lavoro a togliere, non ad aggiungere, quindi l’enfasi è mia nemica.

ⓢ Nel protagonista di E tutti danzarono secondo me c’è un po’ di Tony Pagoda, un po’ di Lazzaro Santandrea. Ti ispiri a qualche scrittore?
No, credo di avere uno stile definito. Se devo citare una persona voglio nominare Valerio Evangelisti. Eravamo molto amici. Nonostante scrivesse cose di tutt’altro genere mi rivedo nel suo rapporto con il magico, che non si risolve e non si spiega mai. Lui aveva questa capacità di passare dal realismo al magico, e poi come me aveva una formazione storica, era un professore di storia.

ⓢ E tutti danzarono sarebbe un film molto bello.
Sì, ma servirebbero quaranta milioni per girarlo.

ⓢ In effetti affittare il Parco Sempione non dev’essere economico, e neanche assoldare migliaia di comparse.
I film italiani che hanno provato a fare questo genere di cose li riconosci: camera chiusa, vedi dieci pirla. Io ne devo vedere diecimila. Nel film di Cuaron, Roma, c’è una scena, scontri di piazza, loro scappano in questo grande magazzino, a un certo punto uno apre la finestra e vede diecimila persone in piazza. Quella roba lì è l’epica. Però se la fai con tre cristiani, come facciamo di solito in Italia, non è epica. Sai cosa fece Jackson nel Signore degli Anelli? Assalto al fosso di Helm, quindi orchi a go go. Aveva cinquecento comparse, non gli bastavano, chiamò l’esercito neozelandese e si fece mandare mille soldati, li bardò con abiti di scena. Infatti se lo rivedi adesso, e ha vent’anni quel film, ha una potenza visionaria pazzesca. Sarebbe bello girare un film tratto da E tutti danzarono, ma non credo sarebbe possibile raccogliere il budget sufficiente.

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