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I confini sono cicatrici: viaggio nella Palestina di Adania Shibli
La scrittrice palestinese sarà ospite della Milanesiana il 31 luglio per raccontare Un dettaglio minore, libro per metà storico e per metà romanzesco sulla guerra in Palestina.

La cartografia è politica e lo è soprattutto quando si parla di territori occupati: le mappe dell’occupante e quelle dell’occupato non possono che essere diverse, le une mostrano confini che per le altre sono cicatrici. La protagonista di Un dettaglio minore, il libro di Adania Shibli candidato al Booker Prize nel 2021, guida la sua utilitaria bianca dalla Cisgiordania a un insediamento nel deserto del Negev utilizzando diverse carte: una fornita dal ministero del turismo israeliano, con i puntini neri delle colonie sparsi nel grande giallo del deserto; una della Palestina prima del 1948, con decine di villaggi arabi i cui nomi sono diventati fantasmi.
Adania Shibli, una delle maggiori scrittrici palestinesi, il 31 luglio è ospite della Milanesiana in una conversazione con lo scrittore Vincenzo Latronico (potete prenotare qui). Ci sono diversi intrecci di attualità e censura, che vanno dal Medio Oriente all’Europa, e rendono questo libro ancora attuale. Per esempio c’è il fatto che Shibli, il 20 ottobre 2023, avrebbe dovuto ricevere il premio LiBeraturpreis alla Fiera del Libro di Francoforte. La motivazione del riconoscimento parlava proprio di confini: «Un’opera d’arte che racconta il potere dei confini», si leggeva nell’elogio del libro. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, la Fiera ha però deciso di sospendere il premio, escludendo Shibli senza una motivazione troppo logica, se non la volontà di punire tutto ciò che potesse essere collegabile alla Palestina. Nel frattempo, il sito Arablit aveva pubblicato una lettera aperta in difesa della scrittrice con oltre 600 firmatari, tra cui Abdulrazak Gurnah, Annie Ernaux, Olga Tokarczuk, Anne Enright, Richard Flanagan, Ian McEwan. Anche La Nave di Teseo, l’editore italiano di Un dettaglio minore, aveva espresso la sua solidarietà.
Un dettaglio minore è un libro per metà storico e per metà romanzesco. Gli eventi storici di cui narra Shibli nella prima parte libro sono accertati, la seconda parte è invece finzione. Perché la protagonista, allora, si arma di mappe e decide di attraversare tutti i diversi checkpoint per uscire dalla Zona A e raggiungere la complicatissima Zona C? Perché è ossessionata da un omicidio brutale, avvenuto nell’agosto del 1949, esattamente 25 anni dopo la sua nascita. Il rapimento, lo stupro di gruppo e l’uccisione di una ragazza araba nell’avamposto di Nirim.
Gli eventi si dispiegarono così: durante un pattugliamento della zona intorno all’avamposto, un gruppo di soldati incontrò degli arabi. Li uccisero, e presero prigioniera una ragazzina, l’unica superstite, da riportare loro al campo. La sera stessa, durante la cena, il tenente Moshe informò i soldati che si sarebbero potuti divertire con il corpo della ragazzina. Quindi organizzò lo stupro con precisione maniacale: il giorno uno sarebbe stato il turno della Squadra A, il giorno due della Squadra B, il giorno tre della Squadra C. Successivamente, i sergenti, i cuochi, il medico e gli autisti. Terminati i turni, il tenente portò la ragazzina nel deserto, la fece uccidere da due sottoposti e la fece seppellire. I soldati vennero trovati colpevoli e processati dalla corte marziale. Condannati a quattro anni, poi ridotti a due in appello.

Nella seconda parte del libro una donna palestinese dei giorni nostri sente il bisogno di indagare quella storia, di saperne di più. Non ha specializzazioni forensi, non ha preparazioni giornalistiche: vuole soltanto vedere i luoghi, immaginare l’orrore su sfondi reali. Da Ramallah, allora, affitta un’auto con la carta d’identità di un’amica (non la sua: lei non ha il diritto di muoversi all’interno dello Stato di Israele, né in tutta la Cisgiordania), e guida verso sud con l’aiuto di diverse mappe. La donna, ci racconta, non percorreva quelle strade da anni. Sono cambiate. È cambiata la geografia visuale ma anche quella politica: ci sono checkpoint dove non c’erano, colonie dove prima era territorio arabo. L’occupazione si allarga, a poco a poco, come una macchia d’olio.
Quando la donna si addentra nel Negev per cercare l’avamposto poi diventato kibbutz, si ferma per consultare le mappe: «Prendo le carte sul sedile accanto. Apro per prima quella israeliana e cerco di individuare la mia posizione basandomi sul numero scritto sull’ultimo cartello che ho visto lungo la strada. Devo semplicemente procedere dritto e percorrere un breve tragitto per raggiungere la mia prossima destinazione che, sulla carta, è segnata come un piccolo punto nero, praticamente il solo in un vasto mare giallo. Quindi prendo la carta che descrive il paese fino al 1948 ma la richiudo immediatamente sopraffatta dall’orrore, poiché i villaggi palestinesi che su quella israeliana sembrano essere stati completamente inghiottiti da un apparente mare giallo qui emergono a dozzine». Ecco un altro filo che tiene legato questo libro all’attualità più attuale: Nirim, durante gli attacchi del 7 ottobre, è stato uno dei kibbutz più colpiti da Hamas. Venne fondato nel 1946 come uno delle undici colonie che l’Agenzia Ebraica si affrettò a costruire prima che terminasse il Mandato britannico sulla Palestina, in modo da poter reclamare il Negev per sé, a differenza di quanto era previsto nel piano Morrison-Grady.
La narrazione di Shibli è ipnotica, fatta di immagini e movimenti, ricca di descrizioni. Parla di strade che cambiano corso, di colline in cui scompaiono villaggi e appaiono nuovi insediamenti nel giro di pochi anni. Niente è immutabile, nemmeno l’orizzonte. E forse farà strano pensare che non c’è mostra di violenza nelle parole che usa Shibli per narrare di questi cambiamenti. Un modo di descrivere che può ricordare quello di Flaiano in Tempo di uccidere, per cui sia il colonialismo italiano che la Nakba si trasformano in eventi soprannaturali come maledizioni, forse troppo violente per essere descritte nei dettagli. Anche l’assenza del dialogo diretto, lungo tutto il libro, porta a questo stordimento. La realtà più concreta e tangibile riaffiora invece con una cadenza regolare, dopo ogni manciata di chilometri: ai checkpoint in cui la tassa da pagare è la paura di non farcela. È irrazionale, il funzionamento: la protagonista sa che potrà andare bene o male per un capriccio del soldato. Tremendamente razionale, invece, il rapporto che il tenente Moshe compilò il 15 agosto del 1949 per il suo superiore, Capitano Uri, a proposito della faccenda della ragazzina araba. Lo riporta ancora un articolo di Haaretz, e dice: «Nel pattugliamento del 12.8.49 ho incontrato degli arabi nel territorio sotto il mio comando, uno dei quali armati. Ho ucciso l’arabo armato sul posto e preso la sua arma. Ho preso prigioniera la femmina araba. La prima notte i soldati l’hanno violentata e il giorno dopo ho ritenuto opportuno rimuoverla dal mondo».