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Lo chiamano Giacomo

Icona della ristorazione milanese, amato da politici, attori, cantanti. Oggi la sua storia è in un libro, edito da Bompiani. Ecco perché ci sembra interessante.

04 Ottobre 2013

Giacomo Bulleri ha 88 anni e non si vede. Non fosse che tutti lo chiamano solo “Giacomo”, come se fossero amici da una vita, per i capelli bianchi e la voce sottile di chi a lungo ha chiacchierato con i clienti prenderesti per vere le sue parole: «Mi sento ancora un ragazzino: non sono mai soddisfatto, sono sempre alla ricerca di qualcosa, anche se non so cosa. Me lo diceva anche mia madre, quand’ero bambino: “Giacomo, ma cosa vuoi? Sei proprio irrequieto”. Aveva ragione». Poi fa una pausa e si fa più realista: «Non riesco a capacitarmi del fatto che nel 2015 compirò 90 anni». Ma lo dice senza tristezza nè arrendevolezza, quasi divertito da quello che a lui e non solo sembra solo uno scherzo anagrafico. Del resto, Giacomo Bulleri l’ironia ce l’ha nel sangue, come tutti i toscani. Già, perché Bulleri è di Collodi, anche se da mezzo secolo e più è un’icona della ristorazione milanese: al suo tavolo – ai suoi tavoli: oggi ha tre ristoranti, un caffè, una tabaccheria e una pasticceria – hanno cenato nomi altisonanti di ieri e di oggi. Nomi che spaziano da Kennedy a Rihanna, da Madonna a Putin. E che lui ricorda con piacere, soffermandosi sui dettagli che solo chi osserva davvero sa cogliere. La sua storia è interessante perché è una vicenda fatta di fatica, passione e forza di volontà. Di obiettivi raggiunti che non sono mai abbastanza, nemmeno alle soglie dei 90 anni. E di una notorietà che nelle parole di Giacomo sembra quasi essere un corollario e non l’essenza di una carriera.

«Quando mi ha detto “Scriviamo un libro su di te, sulla tua vita” le ho risposto che non sono uno scrittore, sono un ristoratore, un lavapentole. Del resto ho cominciato proprio così»

Sono le 18,45 quando incontro Giacomo Bulleri al Giacomo Bistrot, uno dei suoi “gioielli” in via Sottocorno: è vestito con un completo di lino chiaro e chiede subito di farci portare un bicchiere di vino rosso per conversare meglio. La convivialità, del resto, è da sempre la sua passione e la sua arte. Oltre ad essere diventata la base della sua carriera: mettere a proprio agio gli ospiti è una delle sue missioni (riuscite). A partire dal bicchiere di vino di cui sopra. L’intervista è una chiacchierata informale che parte dalla cucina e prende il largo verso altri temi. Ma dalla cucina sembra non discostarsi mai. Perché l’occasione di queste parole scambiate attorno a un tavolo, mentre tutt’intorno fervono i preparativi per la cena, è la pubblicazione della prima autobiografia di Giacomo, Ricette di Vita (Bompiani, collana PasSaggi, 19,5 euro), curata da Elisabetta Sgarbi, cliente storica e altrettanto storica amica del ristoratore toscano. «Quando mi ha detto “Scriviamo un libro su di te, sulla tua vita” le ho risposto che non sono uno scrittore, sono un ristoratore, un lavapentole. Del resto ho cominciato proprio così».

È il 1958 a segnare l’inizio della storia di Giacomo il ristoratore: la voglia di nuove sfide, infatti, porta Bulleri – che viveva già a Torino – a Milano. «Sono arrivato qui con l’idea di aprire un locale tutto mio – racconta Giacomo – e ce l’ho fatta: il primo era in via Donizetti, un ristorante dalla cucina semplice ma buona. A farmi accettare dai milanesi ci ho messo un po’, ma li ho convinti con il cibo. In un ristorante ci si fa capire con la cucina, no?». E così a suon di bollito, ossobuco, arrosti e ribollita ha rubato il cuore di politici, cantanti, attori. «Uno dei clienti che ricordo con più affetto – dice – è Mario Del Monaco: un tipo simpatico, scherzoso». Negli anni Novanta, il cambio di indirizzo: «Mi hanno sfrattato – ammette senza mezzi termini – e così sono arrivato in via Sottocorno, dove oggi ci sono Da Giacomo, il ristorante a cui sono più affezionato perché ci ho messo davvero il cuore, e il Giacomo Bistrot, la tabaccheria e la pasticceria. Poi nel 2007, mentre era qui a cena, il sindaco di allora, Letizia Moratti, mi chiama e mi dice “Giacomo, ma non ti interessa lo spazio sopra l’Arengario?” e lì mi sono buttato a capofitto in una nuova sfida, alle prese con una burocrazia difficoltosa. Ma ce l’abbiamo fatta». Aperto nel gennaio 2011, Giacomo Arengario è una delle mete gourmet preferite dai turisti: la vista dal ristorante sul Duomo e sulla Piazza è estremamente suggestiva.

Sfida, rischio: sono queste le parole ricorrenti nella parabola professionale di Bulleri. E non solo in quella professionale: «La vita dev’essere piena di sorprese: quando hai programmato tutto, dal mio punto di vista, sei finito». Il programma di Giacomo per la serata è sempre lo stesso eppure sempre diverso: «Vado al ristorante, incontro i clienti, do un’occhiata a come vanno le cose – racconta – e cerco di girarli tutti e tre, quando posso. Del resto io a casa non ci so stare. E poi per me questa è casa».

A Masterchef, allo spopolare degli star chef e della cucina d’autore, ai diktat estetici dell’impiattamento che incollano i profani allo schermo televisivo dalla mattina a notte fonda, agli abbinamenti insoliti – sempre più ricercati, innovativi, azzardati – tra dolce e salato, aspro e zuccherino, Giacomo Bulleri oppone una ricetta lungamente testata, quella della semplicità: «Mi piacciono le cose tradizionali: a pranzo, per dire, ho mangiato la trippa. Non voglio criticarli, ma i cuochi stellati fanno piatti che, più che da mangiare, sono da guardare. Certo: rispetto agli esordi il mio menù è diverso, più ampio, anche perché ognuno dei ristoranti ha le sue peculiarità. Ma io promuovo sempre la buona cucina italiana. E le stelle me le danno i clienti, che continuano a tornare occasione dopo occasione». Lui, imperterrito, mai stanco – almeno così sembra e così dice -, continua ad accoglierli con la stessa passione. E si congeda con una stretta di mano affettuosa e decisa e il savoir faire che spesso fa la differenza tra ristoratore e ristoratore: tra poco è ora di cena, ora di aprire le danze.

Nella foto: Giacomo Arengario, aperto nel gennaio 2011, si trova all’ultimo piano del palazzo che ospita il Museo del Novecento (ph. Massimo Listri)

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