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Ultime dal Cairo

Testimonianze da un conflitto senza compromessi, che non può che crescere, con un fronte islamista destinato a gonfiarsi pericolosamente.

16 Agosto 2013

Piazza Tahrir, luogo simbolo della rivoluzione del 2011, è circondata dai blindati di esercito e polizia. L’accesso è vietato a tutti i civili. I soldati controllano le principali vie del Cairo, deserte, con posti di blocco. “Vorrei uscire per andare a trovare un amico, ma temo di non poter rientrare in caso di scontri”, racconta un residente di Zamalek, isola sul Nilo e quartiere chic a cinque minuti di auto dal centro. Ed è su uno dei ponti che da Zamalek portano verso il cuore del Cairo che sono scoppiate oggi le prime violenze, con colpi di arma da fuoco, il fumo dei lacrimogeni, barricate improvvisate. A metà pomeriggio, nella capitale e in altre città del paese si contavano almeno 30 morti (il numero è intanto salito a più di sessanta, riportano le agenzie).

Non c’è spazio in queste ore in Egitto per un compromesso, la politica come opzione sembra essere stata abbandonata da tutti gli attori sulla scena che si muovono verso un prolungato confronto violento. Dopo i 700 morti di mercoledì, quando le forze di sicurezza hanno sgomberato due sit-in dei Fratelli musulmani, movimento del presidente deposto Mohammed Morsi, nessun negoziato è in corso tra le parti. La Fratellanza ha chiesto ai propri sostenitori di tornare in strada a manifestare. Al Cairo, dopo la preghiera del venerdì, oltre venti cortei hanno marciato verso la centrale piazza Ramses. La polizia ha l’ordine di sparare contro chiunque attacchi simboli delle istituzioni e installazioni militari. Non è una minaccia vuota di intenzioni.

“La polizia e l’esercito hanno scelto il confronto violento e non soltanto i Fratelli musulmani ma il più ampio fronte islamista è diventato difficile da controllare”, spiega Issandr el Amrani, esperto di Egitto e titolare del blog The Arabist. Gli attacchi, mercoledì, a chiese e caserme da parte di sostenitori di Morsi non fanno parte di un piano premeditato, spiega, ma rappresentano il risorgere di tensioni preesistenti, gonfiate dagli eventi. Le violenze settarie e l’attività di gruppi armati jihadisti nel Nord del Sinai, due problemi cronici dell’Egitto, non potranno che aumentare con il crescere dell’instabilità.

Se nelle prossime ore i Fratelli musulmani e i generali, veri traghettatori della politica nazionale, non troveranno un canale di dialogo, il rischio è che l’Egitto possa entrare senza freni in un periodo di confronto armato. “Una guerra civile della devastante portata dell’Algeria sembra poco probabile, ma è certo ipotizzabile che possa emergere una resistenza armata legata alla Fratellanza”, ha scritto pochi giorni fa il sito del New Yorker.

“I prossimi giorni non devono assomigliare all’Algeria degli anni 90 o alla Siria di oggi per portare alla distruzione del tessuto sociale dell’Egitto – spiega Michael Hanna, analista della Century Foundation – Possiamo parlare di disastro anche se i numeri restano inferiori”. I Fratelli musulmani hanno rinunciato alla lotta armata da decenni. A preoccupare gli analisti è ora l’incapacità della leadership islamista di controllare la propria base – allarme già sollevato da membri della confraternita – e il risorgere di frange violente. Il peggiore degli scenari possibili, secondo Hanna, potrebbe concretizzarsi con omicidi politici, con la comparsa tra i ranghi dei gruppi jihadisti del Sinai di militanti stranieri, con la circolazione di armi più sofisticate e potenti nelle città. E’ stato riportato da diversi mass media internazionali nei mesi scorsi che proprio dal poroso confine tra Libia ed Egitto sono passate molte delle armi finite nelle mani dei ribelli siriani. E da anni, dal Sudan attraverso le vie desertiche del Sinai, armi e munizioni arrivano anche ai gruppi palestinesi di Gaza. Trovare la via del Cairo sarebbe dunque facile per i contrabbandieri.

Il confronto tra islamisti e forze della sicurezza fa risorgere gli spettri degli anni 80 e 90 in Egitto. “Gli alleati della Fratellanza includono fazioni radicali che hanno portato a termine attacchi terroristici due decenni fa, culminati nel massacro di 58 turisti a Luxor nel 1997 – ricorda l’Economist – alcuni membri della Fratellanza stessa possono essere pronti oggi a prendere le armi”. Gli anni 90 però restano un paragone che non convince molti osservatori. “Assisteremo a settimane di scontri simili a quelli dei giorni scorsi – spiega Hussein Gohar, militante del partito Social democratico – Gli islamisti cercano il sostegno dell’occidente: gli stranieri non saranno un obiettivo”.

Oggi, rispetto a 15 anni fa, dice el Amrani, polizia ed esercito sono più deboli, il sentimento di rifiuto tra gli islamisti dopo la deposizione di Morsi è più diffuso, la disponibilità di armi è più alta. I generali rischiano di aver sopravvalutato le proprie capacità: “Pensano di poter gestire un confronto con gli islamisti perché lo hanno fatto negli anni 90. Le condizioni però sono cambiate”.

Nell’immagine: l’esercito egiziano a un check point che sbarra la strada per Piazza Tahrir. Foto di Ed Giles (Getty Images)

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