Il regista torna sul Lido dopo un'assenza di otto anni: l'ultima volta ci era stato per presentare il suo film Downsizing.
Sinners inizia con un giovane nero, zoppicante e zuppo di sangue, sfregiato in volto, il manico di una chitarra (diventato paletto anti vampiro, ma questo ancora non lo si può sapere) stretto in mano, che entra nella classica chiesetta di legno verniciato di bianco candido sul ciglio di una strada polverosa tra i campi del profondo Sud americano. È un’immagine potentissima – oltre che magnifica, girata in pellicola 70mm – che riunisce immediatamente i tre temi del film: la cultura afroamericana, la musica, il soprannaturale.
Viene subito in mente il mito di Robert Johnson, chitarrista blues attivo proprio dove è ambientato il film, negli anni ’30 a Clarksdale, Mississippi, che si dice fece un patto col diavolo in cambio di un improvviso e impareggiato talento; patto saldato con la morte di Johnson a 27 anni, che lo rese uno dei primi membri del Club 27. Fa anche pensare al romanzo cult premio Pulitzer Amatissima (Beloved, 1988) di Toni Morrison che racconta una storia di schiavitù, canti e fantasmi con la delicatezza di una poesia.
Ryan Coogler, da Disney al B movie
Invece Sinners non è niente di tutto questo: è un B movie violento, sexy e grossolano, su una coppia di gemelli gangster in lotta contro i vampiri. Ryan Coogler, nel suo primo progetto non franchise dopo la fama (raggiunta sulle spalle dei brand Rocky e Marvel rispettivamente con Creed e Black Panther) prosegue imperterrito la sua tradizione di inserire (oltre a Micheal B. Jordan) tematiche di identità afroamericana in blockbuster per il grande pubblico.
Non bisogna farsi ingannare dalla prima lunga metà del film che il regista, con un flashback a 24 ore prima dopo l’opening sopracitato, dedica interamente allo stabilire ambientazione e personaggi. Il giovane chitarrista Sammie (Miles Caton), ignaro delle sue imminenti disavventure, viene assoldato dai suoi cugini per suonare all’inaugurazione di un juke joint, ossia una vecchia segheria riconvertita in luogo di bevute, gioco d’azzardo, sesso e soprattutto musica per i mezzadri di Clarksdale. Gli ideatori del piano sono i gemelli Smoke e Stack (uno sdoppiato Micheal B. Jordan), convenientemente distinti dal cappello stetson rosso di uno e dalla coppola blu dell’altro, non essendo personaggi abbastanza delineati da poter essere distinti in altro modo. Comunque passano subito in primo piano, dato che il protagonista Sammie è ancora più anonimo – il che forse spiega perché è il settimo in ordine di grandezza nella locandina originale e completamente assente in quella italiana.
Se non per approfondire personaggi e temi, elevando il film sopra lo standard dell’horror di serie B, perché posticipare così tanto l’inizio della tanto agognata azione (comunque non all’altezza dell’attesa)? Forse per ispirarsi alle lunghe attese alla Tarantino, capace e coraggioso abbastanza da tenere sulle spine per ore intere prima di premere l’acceleratore; dopotutto è lui che ha lanciato la moda del rivitalizzare i film di genere con cast e budget (e talento registico) da film di serie A. Ma Coogler sembra – volente o nolente – avvicinarsi più agli adepti di Tarantino, come Eli Roth o Robert Rodriguez, dotati registi i cui B movie restano nonostante tutto B movie. Nello specifico Sinners prende evidentemente moltissimo da Dal tramonto all’alba di Rodriguez, storia di due rapinatori che si rifugiano in un bar che si rivela essere (spoiler) un covo di vampiri.
Non abbastanza cattivo gusto
Ma, se un confronto con Tarantino è impietoso per quasi tutti i registi di azione, perché Sinners non funziona nemmeno su questo livello? L’unica cosa che Rodriguez e Roth condividono con Tarantino, e che invece Coogler sembra riluttante a impiegare, è una sana dose di cattivo gusto, sia nel sangue che nei contenuti. Non importa quanti siano gli schizzi di sangue e le parolacce, che non mancano, Sinners non è mai davvero sgradevole; il che sembra tutto fuorché una pecca, ma lo diventa quando la struttura volutamente dozzinale del film, fatta di personaggi piatti, pretesti narrativi assurdi e azione idiota, si regge sulla pretesa che il regista non stia parlando allo spettatore dall’alto al basso, impartendogli lezioni etiche, piuttosto il contrario. Il vero valore dei B movie “elevati” sta nell’offrire superficialmente intrattenimento rozzo e scorretto, suscitando simpatia ed eccessiva confidenza nello spettatore, approfittandone per prenderlo in contropiede e farlo sentire improvvisamente scomodo. Mentre Coogler sembra incapace di abbassarsi a tanto, mantenendo sempre una bussola morale che impedisce al film di parlare ai nostri istinti più bassi.
Sinners però riesce a parlare a un altro tipo di istinto comune, con uno slancio totale e spudorato che costituisce la vera forza dell’opera. Si tratta della musica: musica come passione e missione, come eredità culturale, in particolare per gli afroamericani ma condivisa tra i popoli, musica come religione. Vero protagonista è infatti il Delta Blues, genere appartenente al profondo Sud che prende appunto il nome dal delta del Mississippi. È in questa chiave che trova senso l’allegoria vampirica, ad incarnare un’industria che si nutre letteralmente del sangue degli artisti, che offre vita eterna e solidarietà in cambio di un’assimilazione spregiudicata (calza perfettamente la credenza secondo la quale i vampiri devono essere invitati in casa dalle vittime stesse). Come dice un personaggio opportunamente chiamato Delta Slim (lo splendido Delroy Lindo): «Ai bianchi il blues piace, solo che non gli piacciono quelli che lo suonano».
Chi fermerà la musica
Sinners contribuisce al riscatto del Sud come “paesaggio mitico dell’America nera”, come professa la poetessa afroamericana Eugenia Collier: «È qui che l’agonia della schiavitù ha creato una storia che deve ancora essere scritta. È il Sud che ha disperso la sua cultura nelle città del Nord». E la musica si fa il mezzo di emancipazione, riappropriazione, condivisione di un popolo che in uno specifico territorio ha sofferto tanto a lungo da riuscire a mettere salde radici culturali che producono frutti tutt’oggi apprezzati in tutto il mondo. È il caso del Southern Hip Hop, il cui più illustre membro Killer Mike, rapper vincitore di tre Grammy lo scorso anno, nella hit del 2012 “R.A.P. Music” cantava: «This is jazz, this is funk, this is soul, this is gospel. This is sanctified sex, this is player pentecostal. This is church front, pew, amen, pulpit. What my people need and the opposite of bullshit». È un messaggio forte, per niente scontato ed evidentemente sentito, anche da Coogler. Sottoscrive Delta Slim: «Il blues non ce l’hanno imposto come quella religione». Killer Mike apre la sua canzone ammettendo: «Non ho mai davvero avuto un’esperienza religiosa, in un luogo religioso. La cosa più vicina al vedere o sentire Dio, per me, è ascoltare musica».
Quando Sammie, traumatizzato, arriva in chiesa con ciò che rimane della sua amata chitarra, gli viene intimato di abbandonarla, di voltare le spalle al peccato. Ma Sammie non abbandonerà mai la sua chitarra. La sua storia ribalta il mito di Robert Johnson, che per le sue doti musicali è destinato a un’eternità all’inferno, e ribalta la morale cristiana che dà il titolo al film: se sfogarsi, divertirsi, bere, fare l’amore, cantare, ballare, suonare è peccato, siamo contenti di essere peccatori. Ma se i personaggi del film preferiscono morire che vendere l’anima per conformarsi, il film stesso non ha la loro forza. Coogler è convinto di stare approfittando del blockbuster, simbolo dell’industria hollywoodiana bianca, per combattere le sue lotte personali e culturali. Ma forse non si è accorto che in questo modo ha invitato il vampiro a entrare, e dovrà fare meglio di così per non soccombere.