L’indie è morto ma I Cani continuano anche post mortem

Atteso per nove anni, il nuovo album di Niccolò Contessa è un ritorno a una scena indie che ormai non esiste più. Con una sola, notevole eccezione.

16 Aprile 2025

«Nella parte del mondo in cui sono nato ​​quasi tutti i romanzi hanno un protagonista che somiglia all’autorе» dice Niccolò Contessa nella nona traccia del quarto attesissimo album de I Cani. Nella parte del mondo in cui lui è nato, aggiungo, anche i dischi hanno protagonisti che somigliano all’autore e cominciano con canzoni che si intitolano «io», caratteristica che, nel caso di Contessa, coincide con la formazione di un un genere o una scena, a seconda di come vogliamo chiamare la compattezza spontanea che deriva da quei prodotti culturali rimasti simbolicamente attaccati a un tempo e a un luogo.

Nella parte del mondo in cui sono nati I Cani

Nella parte del mondo in cui sono nati I Cani, dunque, c’era il Circolo degli Artisti, un posto dove tutte le band e i cantautori che poi abbiamo infilato nel canone indie italiano, definizione assai ambigua, ma comunque in qualche modo esemplificativa, sono passati. Nella parte del mondo in cui è nato Contessa c’erano i pariolini, corso Trieste, gli hipster, le coppie ai concerti, Vera Nabokov, i vestiti comprati all’American Apparel di Monti, le foto scattate con le Lomo e quelle sature del proto-Instagram, i videoclip con Luigi Di Capua e in generale i video di The Pills. C’erano poi Calcutta, Coez, Gazelle, Thegiornalisti, c’era una romanità che diventava sineddoche della gioventù millennial.

Non sono passati neanche dieci anni dal 2016 che già è diventato un luogo della nostalgia. Quel sentimento che per Al Bano era canaglia, per Cocciante celeste e per Olly balorda, infesta ogni anfratto di internet per fagocitare qualsiasi propensione al futuro: Tony Effe non è ancora andato in pensione che già i meme hanno deciso che nove anni fa la trap viveva il suo prime, come si dice in questi casi. L’aspetto interessante di questo attaccamento a un passato recente, fatto principalmente di una selezione arbitraria di ciò che è bello e ciò che invece è dimenticabile, è che nel 2016, oltre alla Dark Polo Gang, alla lean e a tutti quegli elementi estetici che sono poi sfociati nel genere mainstream per eccellenza del contemporaneo, in effetti, c’era anche una forte presenza di indie italiano.

C’erano i semi di Lucio Corsi sul podio di Sanremo, delle arene riempite da Calcutta e della italianizzazione del mercato musicale, un attimo prima che diventasse così Sanremo-centrico come è oggi. Forse il fatto che nel 2016 usciva anche l’ultimo album de I Cani prima della lunga pausa di nove anni, facendo diventare Contessa l’equivalente italiano di Rihanna, famosa per aver lasciato i suoi fan a bocca asciutta dallo stesso annus mirabilis, potremmo interpretarlo come segno della loro supremazia sul genere. Lasciare la festa che hai organizzato tu stesso mentre è al suo apice, per poi tornare quando è ormai bella che finita.

Come Nanni Moretti in Ecce Bombo

Se vogliamo usare la categoria dell’hype, molto in voga nell’ultimo decennio, per misurare la predominanza di un certo artista sulla scena che percorre tutti gli anni dieci del Duemila, I Cani vincono. Io stessa, che nel 2011 mi trasferivo a Roma nel pieno tornado di prestigio culturale capitolino underground, soffrivo malamente il fatto che di questo gruppo se ne parlasse come se fossero dei messia: Contessa non si fa vedere in faccia e fa i live segreti a piazza Vittorio, con le buste di carta in testa, Contessa fa canzoni tutte uguali con le stesse quattro note eppure sono tutte perfette, Contessa non si droga ma parla di droghe con la coolness di uno sketch in bianco e nero caricato su YouTube da quei tre tizi di Giardinetti, «smetterei di pippare se solamente avessi iniziato, sarebbe una bella spesa in meno e davvero un bel gesto», diceva.

Contessa è il Pigneto che diventa the place to be, ma anche la gara tra chi ha fatto il liceo romano più figo, è l’Any Given Monday o la serata al Fish’n Chips, gli skinny fluorescenti e le magliette attillate con Mickey Mouse. Insomma, Contessa, suo malgrado o forse per suo stesso intento, un po’ come Nanni Moretti con Ecce Bombo, è un ritratto generazionale molto specifico e circoscritto che si stacca da sé per diventare universale. Il suo essere così ombelicale nella descrizione minuziosa di ciò che lo circondava, elemento che lo poteva rendere insopportabile a chi o non capiva ciò di cui parlava o lo capiva troppo, toccato sul vivo dalle velleità che aiutano a scopare, lo ha reso anche il più inossidabile agli spietati segni del tempo che rendono molte delle mode e delle sottoculture giovanili una fonte di imbarazzo per chi prova a riportarle a galla.

È quel senso di straniamento che si prova nel rivedere un video dei dARi o i propri post su Facebook del 2012, quando si parlava di sé in terza persona, le emoji si chiamavano smile e in generale si aveva poca dignità nello sbrodolamento di qualsiasi fatto privato. Sentire l’indie italiano di quel periodo, o l’it-pop come era poi stato ribattezzato dai vari gruppi in stile Diesagiowave, «la massoneria dell’indie italiano», tra foto copertine di volte celesti e primi meme post-ironici con Magalli, può essere molto imbarazzante. Lo è per me, perlomeno, quando mi capita di risentire per caso qualche frammento di Tommaso Paradiso che parla di bici rosse Atala o di Calcutta che fa svastiche in centro a Bologna per litigare: al netto dell’affetto e della tenerezza per un periodo che coincide con la formazione identitaria di un pezzo della Generazione Y, la prima ad aver usufruito di internet come strumento di coesione, ciò che rimane è un immaginario un po’ stucchevole e naif, sia nei suoni che nelle immagini evocate dai testi.

In questo senso, l’eredità di Contessa viaggia su un piano decisamente più alto, non solo nella sua formula di osservatorio sulla contemporaneità che è Il sorprendente album d’esordio de I Cani, forte proprio di un arrangiamento tanto schematico e ripetitivo da non poter invecchiare perché ridotto all’osso, ma anche in quella successiva, che sfocia poi in Aurora e in uno spostamento intimista della visione sul mondo, quando dai bordi voyeuristici e impregnati di gintonic del Circolo degli Artisti ci spostiamo alle pareti polverose e tristi della sua stanza, nel posto più freddo, appunto, «perché adesso la notte è finita e la droga è scesa, ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta».

Cosa ne è stato dell’indie italiano

Negli anni di inattività de I Cani, a dire il vero, Contessa è stato attivo, soprattutto nella definizione ulteriore del suo posizionamento da demiurgo schivo dell’indie italiano, tra colonne sonore per i film di Pietro Castellitto, cantore del Vietnam di Roma Nord, e produzioni di Tutti Fenomeni, epigono del contessismo con pretese battiatesche. Fermo al suo posto, nascosto in piena vista, ha continuato a osservare e a raccogliere pezzi da mettere insieme per post mortem, un disco che conferma la combinazione tra introspezione disillusa e inclemente e sguardo cinico sull’esterno, compresa una certa rabbia che, come agli esordi, dice più del particolare in cui è calato che del generale.

«Simone è contento perché gli hanno pubblicato l’articolo, mentre Arianna si lamenta che ogni giorno è come andare al patibolo», canta con la brutalità della presa per il culo che ci mette di fronte allo specchio dei nostri peccati egocentrici, ma anche «nella parte del mondo in cui sono nato se qualcuno parla di anima, è un invasato, un complottista, non è vaccinato», confermando che pure lui che canta, in fondo, non è poi così tanto interessato a uscirne da quella parte del mondo, nicchia esperienziale che fornisce spunti di racconto evocativi ma parziali, visto che nella parte del mondo in cui nato in realtà oltre alle enoteche bio di Testaccio c’è anche il Vaticano, per dire, e lì di anima se ne parla senza problemi.

Cosa ne è stato, dunque, dell’indie italiano, nella sua accezione estetica e non per forza produttiva, e della sua eredità, se mai questo grande calderone dentro cui per comodità abbiamo messo una fetta di musicisti, è abbastanza evidente. I più grossi hanno superato il confine della bolla e sono diventati artisti ultra pop, i più piccoli sono spariti. I Cani sono rimasti I Cani, gli ultimi veri romantici, un po’ come i pariolini di diciott’anni che ormai di anni ne hanno trenta e passa, se non quaranta, e di voglia e tempo di ascoltare un disco per intero sempre meno. Ma stavolta si fa un’eccezione.

Il ritorno molto atteso dei Cani è arrivato a sorpresa

Si intitola post mortem il nuovo album di Niccolò Contessa, uscito ben nove anni dopo il precedente Aurora.

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