La nomina di Demna a Direttore artistico di Gucci chiude mesi di pettegolezzi, mesi in cui a dominare il dibattito sono state le congetture, nuova deriva della macchina dell’hype.
Lo scorso 2 aprile, il Liberation Day annunciato da Trump ha causato l’ennesimo shock collettivo – delle borse, dei titoli di stato, dei media – gettando governi ed economisti nel panico. Se la strategia dell’amministrazione americana non è ancora chiara (si può davvero rilanciare il made in Usa?) e le analisi non fanno in tempo a essere formulate che già devono essere rettificate, quel che è certo è che la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina avrà ripercussioni su tutti i settori. Anche sulla moda e più in generale sul lusso e mentre i brand e le associazioni di settore cercano di districarsi in una situazione che è già complicata dalla flessione dei consumi, su TikTok succede qualcosa di curioso, ma importante.
Sono giorni, infatti, che la For You Page dell’app è popolata da video di rivenditori cinesi che mostrano le loro grandi aziende in Cina: c’è chi produce prodotti beauty, chi mobili, chi scarpe, chi borse, chi lampade, chi capsule per il bucato. Molti di loro lavorano per conto di grandi aziende europee e americane (Brooks Brothers! Ralph Lauren! Charlotte Tilbury!) e raccontano, in inglese oppure con l’ausilio dei sottotitoli, come funziona il made in China, spesso rivolgendosi direttamente agli americani. Non sono tutti profili nuovi, personalmente me ne erano capitati già altri in passato e li ho sempre seguiti con interesse, ma negli ultimi giorni si sono talmente moltiplicati che a voler essere complottisti si potrebbe pensare ci sia una spinta dell’algoritmo (non c’è, è semplicemente è l’ossimoro di TikTok, brillante e ripetitivo).
Dal produttore al consumatore, senza intermediari
I commercianti cinesi sono sempre stati molto bravi a promuoversi: ricordate il trend delle ragazze che tornavano a casa dopo una giornata di lavoro e si muovevano in appartamenti pieni di gadget (il lava-fragole, l’igienizza-scarpe, lo spremi-sapone da appendere in bagno, il cuoci-uova, il mini aspirapolvere, lo spara-fiorellini depuranti per il WC e cose del genere)? Erano in realtà account che promuovevano tutti quei gadget e grazie alle vie dei repost dell’internet sono arrivati da Douyin, come si chiama TikTok in Cina, alla versione occidentale dell’app, dove tutti siamo impazziti dietro a quei video (erano veri? Perché c’era sempre qualche dettaglio grottesco? Chi si era inventato quel concept geniale? Dove si compravano tutte quelle cose?).
Oppure vi sarà capitato di incrociare uno dei video di Tony, proprietario di LC Signs a Guangzhou, che con la sua imitazione di Trump (con tanto di parrucca) e le battute politicamente scorrette ha conquistato quasi due milioni di follower, ben oltre i clienti interessati alle sue insegne luminose. In Italia abbiamo visto il successo della splendida signora Angela di An Megastore a Roma, uno dei primi tormentoni del TikTok di casa nostra, e di esempi ne potremmo citare molti altri.
Lo scorso gennaio, quando TikTok stava per essere bannato negli Stati Uniti, milioni di americani si erano riversati su Xiaohongshu (Red Note) e furono accolti con grazia e ironia dagli utenti cinesi. Solo qualche mese dopo, sembra ora che siano i cinesi a rivolgersi agli americani, o forse agli occidentali più in generale: “Basta comprare su Alibaba” dice @rosiesouringchina prima di consigliare altri siti che eliminano il “middle-man”; “Non c’è niente che un’azienda cinese non possa fare” proclama @lunasourcingchina dopo una graziosa piroetta; “Come evitare le tariffe senza infrangere la legge” spiega invece @gonest-lily (la quale consiglia, temo, di fare parallelo con la scusa del “personal shopping service”); ma c’è anche @rustyniphone, che mostra il suo stock di iPhone 15 Pro Max (saranno quelli partiti dall’India all’annuncio delle tariffe? Chi può dirlo); @dbuy.official che ci chiede se sappiamo chi produce i prodotti che vediamo sugli scaffali di Sephora; @sunyaofurniture002 che vuole ribaltare il pregiudizio sul made in China come sinonimo di qualità scadente (non lo è, infatti) e sempre la nostra carismatica Luna che sul suo profilo racconta le aziende che producono per alcuni dei più famosi marchi di moda.
Manco a dirlo, gli utenti occidentali sono rimasti affascinati, se non rapiti, da questi video e i commercianti cinesi, con le loro aziende, sono diventati ben presto acceso argomento di discussione: ma quindi è così che vengono prodotte tutte le cose che acquistiamo? Perché devo pagare il prezzo occidentale se posso comprare direttamente da chi produce a una frazione del costo? Perché gli account del signor Wang Sen, che è diventato popolare sulla piattaforma “smascherando” i segreti della supply chain globale, sono stati più volte sospesi e lui deve continuare a crearne di nuovi per «condividere le tante informazioni “sconvenienti” su come vengono prodotte le borse del lusso»?
@wangsen9998people support me not because of me, but because of my justice cause♬ 原创音乐 – Wang Sen
Il problema della supply chain
TikTok sembra insomma aver abbattuto le ultime barriere tra il consumatore e il produttore eliminando, o meglio, mettendo sotto torchio il famoso middle-man, sia esso il brand, il rivenditore (sito o negozio), coloro che importano. È un processo di cui i marchi, soprattutto nella moda e soprattutto in un periodo così complicato, non possono più ignorare: ne va della loro percezione, o brand awareness come viene chiamata dai reparti di marketing, e della loro capacità di stare sul mercato e dominare la narrativa che li riguarda (l’odioso storytelling).
Nel mezzo di questa saga ci sono tanti fenomeni complessi, come complessa è d’altronde la supply chain. No, la maggior parte di quelle borse non sono originali; no, non è vero che tutto il made in Italy è fatto in Cina ma i due Paesi sono strettamente legati; no, in questa sterminata e brutale catena produttiva non ci sono solo la Cina, o l’Italia, ma anche la Turchia, il Bangladesh, il Vietnam e l’India tra gli altri; no, rilanciare la manifattura americana non è un affare semplice, sia che si tratti di un iPhone – «Apple non è tanto una compagnia tecnologica, ma più una compagnia di logistica», spiegano quelli di Wired Us nell’ultima puntata del loro podcast, Uncanny Valley – sia che si tratti di una borsa, vedi alla voce difficoltà incontrate da LVMH nella factory in Texas, un investimento celebrato da Trump nel 2019 che ancora non dà i risultati sperati (lo ha raccontato recentemente Reuters).
Sono problemi complessi che le tariffe deliranti dell’attuale governo americano hanno definitivamente smascherato, anche se non nel modo in cui Steve Bannon o Stephen Miller si sarebbero aspettati. Il resto lo stanno facendo i video di questi intraprendenti commercianti cinesi, decisi a mostrare al mondo la loro forza produttiva e la loro reattività imprenditoriale. L’equazione utente di TikTok=cliente del lusso è forzata – me ne rendo conto – ma quello che sta succedendo dovrebbe far pensare gli addetti ai lavori.
Nonostante la loro pervasività, i marchi della moda non hanno mai avuto meno attrattiva e controllo sulla narrazione di sé stessi, e lo dimostra più di tutto la diffusione endemica del fenomeno del “dupe”, ovvero quelli che una volta chiamavamo falsi (qui un’analisi interessante di Jing Daily). I prezzi sempre più alti hanno via via alienato i consumatori aspirazionali, che da quei marchi si sentono presi in giro perché oggi con quello che compriamo abbiamo una morbosa relazione parasociale, mentre la supply chain, allo stato attuale, è un problema grossissimo, per il suo enorme impatto sui lavoratori e sull’ambiente. Tutte quelle zone d’ombra sono ora sotto i riflettori, anzi nel tritacarne dell’algoritmo di TikTok che non lascia spazio alla nuance, alla spiegazione razionale (perché tediosa), al dettaglio: tutto è come un true crime, e le vittime saranno tante, made in Italy compreso. Come racconteremo al mondo che siamo ancora quelli che producono le cose più belle e resistenti e lussuose? Forse dovremmo imparare dal signor Wang Sen.
Oggi pubblichiamo per intero una delle riflessioni che si possono leggere nella nostra newsletter Industry, ogni 15 del mese. Ci si iscrive da qui.